Il mondiale in Qatar ha spaccato la stagione in due parti e tutti i componenti del mondo del fùtbol in due sezioni: chi ci va e chi non ci va, chi è in Qatar e chi è rimasto nel resto del mondo. Chi c’è e chi non c’è.
Io, ad esempio, che nel calcio ho la mia minuscola percentuale del grafico a torta sotto il più ampio spicchio del racconto audiovisivo, al mondiale non ci sono. E - come altri - allora sono andato da un’altra parte, perché se il campionato è fermo e non vai al mondiale, magari hai qualche giorno di vacanza. Ma non vale solo per i giornalisti, vale soprattutto per i calciatori. Così Pogba ha festeggiato il compleanno della moglie a Miami, Cuadrado è in pellegrinaggio a Gerusalemme, Thiago Alcantara è andato a vedere i Lakers e Icardi è con Wanda (di nuovo?) alle Maldive.
I calciatori non convocati, la stragrande maggioranza, hanno scelto altro. Un altro che in certi casi può diventare quasi mitologico, misterioso, come se il calciatore non fosse che un calciatore, qualcosa di esistente prettamente dentro i 105x68, elettrone dei nostri fine settimana, a produrre cinetica nei nostri stadi o ammiccare dentro le nostre timeline, nel video promo di un profumo. Ecco: io ne ho visto uno, di quelli che hanno scelto altro. Ma altro davvero eh! Un altro mitologico. Se avete pazienza, vi spiego.
Tra pintxos e i fratelli Williams: il lontano eco del Mondiale nei Paesi Baschi
Sono stato nei Paesi Baschi, che ai mondiali non ci sono neanche loro in senso stretto, data la loro particolare libertà identitaria, il loro idioma pre indoeuropeo (l’euskera) e il loro status politico di semi indipendenza. E’ chiaro che il discorso scivola su un binario molto relativo, perché comunque, anche tra Bilbao e San Sebastian, sempre in Spagna sei. E allora se ti siedi al bancone del bar e ordini dei Pintxos - la versione basca delle tapas - davanti a te sfileranno almeno 3 tipi di tortilla de patatas, il capo servirà le prime cañas della giornata e di fronte avrai due giornali da sfogliare: MARCA ed EL CORREO, il nazionale e il locale, quello spagnolo e quello basco.
Per darvi del contesto calcistico di come stanno aspirando il mondiale nei Paesi Baschi, il giorno dopo il 7-0 della Spagna sulla Costa Rica, Marca titolava UNA ESPANA BRUTAL. El Correo, invece, nella sezione dedicata allo sport, lasciava grande spazio ai 20 minuti con la Roja di Nico Williams, fratello minore del più famoso Iñaki, nato nel 2002 a Pamplona. Nico Williams è un riferimento della prima squadra dell’Athletic solo da quest’anno e - solo da quest’anno - gioca anche nella Spagna di Luis Enrique. I fratelli Williams (Nico e Iñaki) sono entrambi baschi, giocano entrambi - quasi conseguentemente - nell’Athletic Club de Bilbao e sono entrambi al mondiale.
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Però Iñaki (che è nato nel ’94 a Bilbao e vive in una casa con terrazza affaccio Guggenheim) lo gioca da centravanti del Ghana, mentre Nico - come detto - nella Spagna. In modo quasi paterno, la stampa locale racconta quotidianamente le rispettive avventure mediorientali, lasciando naturalmente spazio maggiore all’attaccante della Spagna, ma portando avanti - con la giusta distanza - anche la causa ghanese. Ogni giorno si parla dei fratelli Williams, i ragazzi di casa. Strano angolo del mondo, strana angolazione di racconto.
Da Bilbao a Erandio
In questo contesto, facendo tutti i giorni colazione con gli articoli sui fratelli Williams, ho visitato Bilbao. Ho un amico di lì, si chiama Aitor. Mi ha presentato la città come si dovrebbero sempre conoscere le città: con gli occhi e la voce di chi ci vive. Mi ha mostrato dal vivo la chiesa disegnata sullo stemma dell’Athletic; mi ha portato dentro il San Mames tramite una scala che porta ad un bar sugli spalti, attivo anche quando non si gioca; e poi mi ha fatto pranzare in una di quelle bettole a metà tra il pub e il ristorante con le foto delle squadre leggendarie appese ai muri. E’ stato splendido, autentico. Ma soprattutto, Aitor, finita la mattinata turistica, mi ha dato appuntamento alla sera: Vieni ad Erandio, il mio paese. C’è una festa, ci divertiremo.
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Ho preso la metro per raggiungere Erandio mentre la gente tornava a casa dalla routine, a sole sceso. Erandio in realtà è a metà tra un barrio e un pueblo - sostanzialmente periferia ma urbanisticamente ricorda un paesotto. Ho raggiunto a piedi Aitor che mi ha accolto con un kalimotxo in mano - un tipico e blasfemo mix tra Coca Cola e vino rosso che però devo dirvi che non è neanche così male. Gli ho chiesto dove fosse la festa e lui mi ha risposto Qui, hermano! intendendo che tutta quella gente che vedevo alle sue spalle a bere kalimotxo fosse essa stessa la festa. Nessun locale, nessuna casa occupata abusivamente - gente in piazza a ridere, tutti intorno ad un unico epicentro musicale: una banda. Sì, una banda.
Cinque o sei individui barbuti, capitanati da un mohicano verde con il microfono in mano, a condurre il delirio collettivo su melodie riconducibili al punk rock di paese. Musica popolare, ritmata, da saltare quasi istericamente. E, tutto intorno a loro, circa 300 persone, qualche fumogeno, diverse bandiere ikurriña e fiumi di kalimotxo. Una giovane sagra ambulante hardcore.
Charanga, Guernica e gli occhi di Villalibre
Aitor deve avermi presentato almeno 25 persone. I migliori amici, alcuni conoscenti, la sorella e perfino i genitori. Il nome della banda, mi ha spiegato poi, tecnicamente è Charanga - che in basco si scrive txaranga. Il nome di quella banda, nel particolare, Sakatu. Mentre provavo ad assorbire i primi effetti del kalimotxo, nel tentativo di sincronizzare il mio corpo con l’andamento ondoso e frenetico della piazza in festa, incuriosito dalle movenze locali e dalla cresta verde del mohicano urlante, Aitor mi ha mostrato il telefono, aprendo Google Images. Poi ha scrollato sotto i miei occhi una carrellata di foto di Asier Villalibre, calciatore dell’Athletic Bilbao, 25enne di Guernica (non so se avete presente il quadro di Picasso ma credo di si), centravanti del valore di 2 milioni e mezzo secondo Transfermarkt, responsabile dell’unica espulsione di Messi nella sua carriera, quando Leo lo colpì al volto durante la Supercoppa di Spagna dell’anno scorso. Dopo aver visto le foto, Aitor mi ha raccolto lo sguardo e me l’ha sbattuto verso il trombettista: E’ lui, hermano. Villalibre è lui.
Ed eccoci qui, dopo tutta questa tiritera inutile sul mio tempo libero, a darvi quello che volevate: Asier Villalibre, un calciatore professionista e militante nella Liga Spagnola, suona la tromba in una banda che performa per strada in un paesotto in provincia di Bilbao. Barba folta, felpa nera, pantaloncino floreale corto e due calzettoni alti e differenti tra loro: uno a pois rossi su base gialla, l’altro a righe arancioni e nere orizzontali. E tra le mani una tromba, mai riposata, soffiata per almeno tre ore senza alcun rifiato, nella totale indifferenza della festa, senza che nessuno gli rompesse le scatole, senza che nessuno disturbasse la sua azione, senza selfie né stories, paturnie o richieste.
Inutile dire che la questione mi abbia colpito. Non potevo crederci. E sì che di calciatore, qualcuno, ne vedo. Con qualcuno ci parlo pure - ho una vaga misura della loro umanità, della loro dimensione normale. Sapete quando si dice che sono ragazzi normali? Ecco: è vero, lo sono. Pregi e difetti, vizi e virtù. Ma questa leggerezza, questa vicinanza, questo azzeramento dei livelli sociali mi ha dato l’impressione di una cosa che potesse succedere solo lì, solo in quel preciso istante e a quella precisa fermata della metro, solo nei Paesi Baschi, solo a Bilbao e solo ad Erandio.
Perché lì sei terra della tua terra, elemento di un collettivo, piccola parte di una grande famiglia. E se suoni la tromba, suoni la tromba per gli altri; se bevi kalimotxo, bevi kalimotxo con gli altri; se balli, balli perché sei festa e la festa è unione, identità, popolo. Popolarità come insieme, non popolarità come fama. Un modo strano per cominciare questo abisso tra una parte e l’altra del campionato. Ma d’altronde, ognuno ha il modo suo di vivere dall’altra parte del mondiale.