Mathieu van der Poel, che è stato la coverstory del Giro d’Italia, e il maestro Wout van Aert non sono gli unici prodigi di questo nuovo e bellissimo ciclismo fluido. Ieri Thomas Pidcock ha chiuso gli occhi ficcandosi tra due ali di folla innamorata: decine di migliaia di tifosi saliti sull’Alpe d’Huez nel giorno della Festa nazionale francese. Provati dal caldo d’altoforno, stregati da un’altra grande recita ad alta quota fra le salite della tappa con più dislivello (4750 metri), son saliti sul Galibier, sulla Croix de Fer e sulla montagna infinita, che è il tempio verticale del ciclismo e il simbolo del Tour de France.
L'Alpe d'Huez fa 70
Scalata per la prima volta settant’anni fa da Fausto Coppi in maglia gialla, prima del 1952, l’Alpe d’Huez è solo un punto geografico in fondo a una strada dissestata, ma a Grenoble vive un affarista innamorato del ciclismo che si chiama Georges Rajon e vuol portare la Grande Boucle lassù, dove c’è un rifugio di legno per qualche ardito sciatore. «C’est un cul de sac!», dice Jacques Goddet mentre un assegno di duecentomila franchi scivola sulla scrivania che fu di Desgrange.
Così nell’inverno del 1952, Goddet invia il giornalista de l’Equipe Élie Wermelige sulla parete verticale che porta a Huez con una Citroën Traction Avant 11 e una guida alpina che, montando le pesanti catene fra due muri di neve, gli dice «Lassù non troverai niente». Vero. In fondo a una carrettiera di fango, sognando una crostata alle noci, Élie rimedia solo un caffè nero bollente stendendo il rapporto di quel vicolo cieco che sarà il traguardo più famoso del Tour de France.
Pidcock, due ruote d'imprese
Settant’anni dopo, il ventiduenne inglese Thomas Pidcock è sceso in picchiata dal Galibier, a cento allora, s’è buttato giù in fuga dalla Croix de Fer («Non so spiegare come faccio ad andare così forte in discesa, prego solo che nessuno mi segua») e ha scalato per primo l’Alpe d’Huez con un sorriso grande da «sopravvissuto al secondo giorno più bello della mia carriera».
Il primo fu lo scorso agosto, vincendo a Tokyo l’oro olimpico della Mountain Bike. Cresciuto nel Team Wiggins e campione del mondo in carica di Ciclocross, vincitore su strada della crono Juniores ai Mondiali di Bergen (2017), della Parigi-Roubaix Espoirs (2019), della Freccia del Brabante (2021), a Pidcock bastano due ruote per far cose mirabili: «Vengo da una gioventù selvaggia in cui il mio unico scopo era d'infilarmi con la bici in un bosco o in mezzo al fango. E ci restavo tutto il giorno, mettendo seriamente a rischio la mia vita».
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Le storie gialle di Vingegaard-Pogacar
In fuga con Pidcock, Louis Meintjes, che sulla Planche des Belles Filels aveva tagliato il traguardo a piedi, spingendo la bici a mano, s’è molto commosso giungendo secondo. Terzo, udite dite, Chris Froome. Decimo, a pochi istanti dalla maglia a pois, Giulio Ciccone. A 3 minuti e 23 i due leader: Pogacar ha dato tre scossoni sul finale dell’Alpe, ma Vingegaard non s’è nemmeno scomposto.
All’imbocco della montagna infinita, Tadej è andato a guardare da vicino la sua ex-maglia gialla, sorridendo un po’ presuntuoso, un po’ irrequieto: «Non ne ho idea, credevo volesse parlarmi, ma mi ha solo sorriso e così gli ho sorriso anch’io: cos’altro dovevo fare?», dice Jonas leader mentre Pogacar fa mea culpa: «Sul Granon ho pagato i miei stupidi attacchi sulle prime salite, ma ho imparato la lezione e recupererò». Chissà se già oggi, pedalando sulle strade roventi che connettono l’Alvernia all’Occitania, qualcosa riaccadrà.