Il Tour de France è dei grandi. Grandi campioni in maglia gialla come Wout van Aert, grandi tappe come quella di ieri sui pavé di Arenberg, grandi leader che fan rumore sui sassi e frementi vanno verso le salite, per prendersi la corsa. Vecchi cuori sui pedali come Simon Clarke, che della Grande Boucle ha baciato la parte più romantica. Quella che la Roubaix.
Venti chilometri di sassi divisi in undici settori. I detrattori dicono che non si può affidare il destino di un lungo Tour allo sciagurato pavé, ma son gli stessi che s’annoiano apertamente quando la tappa è piana, quando le salite son troppo docili, quando le grandi vette si scalano lontano dal traguardo. Quando a Wimbledon piove e il governo dappertutto è ladro. Tanto loro si lamentano sempre.
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Dalle parole al vento alla polvere di stelle, Pogacar pedala su un altro pianeta. Dai lamenti sul divano, a Primoz Roglic che sbatte contro una balla di fieno, si lussa una spalla, manovra da seduto e la rimette al suo posto: «Ha funzionato», dice tacito al traguardo a chi gli chiede di spiegare.
Wout van Aert cade e si lecca le ferite, scatta, insegue, riportando in corsa capitan Vingegaard, scioccato da quella strada aguzza. È una maglia gialla che si sporca di grandezza. È un maestro fiammingo destinato ad altre mirabili imprese fra gente stremata al traguardo. Chi ama il ciclismo è amorevolmente sadico.
Dopo la grande ripartenza di Dunkerque, oggi il Tour de France attraversa Sedan - nomi di antiche battaglie che credevamo suparate - e va verso le montagne, ma senza notabili salite. No che non ci stiamo lamentando, anche perché si parte dal Belgio di Binche, borgo di carnevali e squisite birre trappiste. Anche perché domani c’è la Planche des Belles Filles.