Il Tour più veloce di sempre - corso alla media record di 42,156 chilometri orari, meglio del fango di Armstrong nel 2005 - è un dominio della Jumbo Visma che con 3 successi consecutivi, per un totale di 6 vittorie di tappa, sigilla l’elegante sobrietà della maglia gialla, il “traguardo della bandiera” francese di Christophe Laporte e la straordinaria possanza verde di Wout van Aert.
Tapis Jaune. Il Tour de France viene a Parigi per celebrare la grandezza di una maglia gialla chic che non impegna e la presa volitiva di una maglia verde giunta dalle Fiandre, dove batte il cuore del ciclismo. Interpreti assoluti di questa Grande Boucle, Jonas Vingegaard e Wout van Aert si prendono tutto. Perché se il danese sfilerà sui Campi Elisi anche in maglia a pois, il maestro fiammingo sarà omaggiato per il suo Tour da ovunque protagonista.
In fuga, in volata, a cronometro, van Aert ha vinto a Calais, a Losanna, a Rocamadour. Ha atteso Vingegaard sull’ultima montagna del Tour e la maglia gialla ha ricambiato con un dono contro il tempo, sfilando per duecento metri per concedere al compagno l'ultimo successo. Oggi van Aert potrebbe vincere anche sugli Champs Elysees e il suo Tour sarebbe epico invece di mitico. Cambierebbe poco nell’essenza di una corsa in cui ha esagerato meglio di Pogacar.
Ma non siamo qui, non ora, per parlare del grande sconfitto del Tour, bensì di chi infine l’ha stravinto schiacciando Tadej sotto il greve Granon, sull’Alpe dimenticata di metà percorso. Jonas Vingegaard è stato il leader silenzioso di una squadra di santi protettori, dai pretoriani Primoz Roglic a Steven Kruijswijk, ai gregari Sepp Kuss e Tjesi Benoot, del mattatore van Aert, del classicista Christophe Laporte e del passista Nathan Van Hooydonck.
Da ragazzo, campeggiava in vacanza a Bourg-Saint-Maurice tutti i mesi di luglio, scalando per la prima volta a quindici anni il Galibier, il Glandon e l’Alpe d’Huez. Papà Klaus lavora in Norvegia negli allevamenti di salmoni e per due anni il giovane Jonas ha pesato il pesce nel porto danese di Hanstholm, dalle sei del mattino fino a mezzogiorno: annotandosi qualità, peso e importo prima di andare a venderlo all'asta.
Si divideva così, fra scuola e lavoro, e a diciannove anni gareggiava poco, corridore di centro gruppo senza esperienze internazionali fin quando, a ventidue anni, ha cominciato a esplorare le corse francesi, poi le italiane e le spagnole. Nel 2020, dopo lo zero pandemico, Vingegaard ha scelto di fare lo scalatore e la Jumbo-Visma l’ha ingaggiato in sua piena regola: non fidarsi dei risultati agonistici, basandosi solo sui test di costruzione del campione e di uno “storico esistenziale” votato al sacrificio, dal banco del pesce al durissimo mestiere sportivo del ciclismo.
«Non potevamo lasciare a casa uno così - ha spiegato il manager olandese Richard Plugge - che s’alzava all’alba per lavorare e andava ad allenarsi dopo sei ore». Così la Jumbo l’ha scelto e cresciuto con un tempo di maturazione all’ombra di Primoz Roglic, che gli ha fatto lealmente da maestro.
Secondo allo scorso Tour da primo degli umani, un anno dopo Jonas Vingegaard ha battuto e resistito a Tadej Pogacar, nutrendo con garbo una grande rivalità. Ci ha detto che in corsa se l’è vista brutta due volte: «Quando a Roubaix mi è saltata la catena e non sapevo che fare. E quando ho rischiato di schiantarmi contro una roccia, sbagliando una curva in discesa». Sul pavé e giù dai Pirenei, poi a cadere è stato invece Pogacar sulla discesa della celebre stretta di mano.
E ieri per la prima volta dopo l’arrivo, Jonas non s’è affrettato al telefono per chiamare la moglie Trine, perché lei era lì ad attenderlo dopo il traguardo: per dirgli che ha vinto il Tour de France con in braccio la figlia Frida. Per baciare la maglia gialla.
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