«Questa vittoria è per Kort, il mio osteopata. Ha ottantacinque anni, ma sa ancora dove mettere le mani. Ha ridato vita a un corpo, il mio, che pensavo d’aver perduto per sempre».
Kort è uno dei tre custodi della vita di Fabio Jakobsen, velocista olandese nato il 31 agosto 1996. Gli altri sono quel formoso giudice di gara polacco che due anni fa a Katowice si fratturò sei costole all’impatto con Jakobsen, gettato oltre le transenne in volata da una spinta maledetta del duellante Groenewegen - e il medico che lo raccolse in una pozza di sangue. Furono scene orribili.
Al suo risveglio in ospedale, dopo molte ore di coma farmalogico, Dylan trovò un prete con un libro in mano: gli diede l’estrema unzione e pregarono insieme. Era più morto che vivo tra fratture multiple al cranio, senza volto, senza denti, senza una corda vocale. Subì 130 punti di sutura in faccia e un trapianto d'osso per ricostruire il palato e la mascella.
Quando Fabio è tornato in vita ha chiesto una bici, urlando di dolore alle prime pedalate. Un dolore più forte della paura di rimetter gli occhi sul manubrio, chissà quando, nel mestiere del velocista. Forse nessuno ci aveva più creduto tranne lui, di tornare lì nel mezzo, in bici a ottanta all’ora tra due fottute transenne.
Ma Fabio l’han chiamato così per Casartelli, morto sulla strada del Tour un anno prima che lui nascesse, e la sua seconda vita vale per due. E s’è scandita di nuove prime volte: la prima uscita in squadra a gennaio d’un nuovo sospirato anno (2021), la prima tappa in Turchia ad aprile, la prima volata vinta il 21 luglio 2021 a Zolder, Tour de Wallonie, poi la maglia verde di una Vuelta di Spagna già dominato allo sprint. Diciotto successi in poco più di un anno dal suo rientro, 11 in questa stagione, l’ultimo al Tour de France.
Diciotto vittorie prima dell’incidente. Diciotto da velocista resuscitato. In Danimarca, nel paese delle favole di Andersen, il figlio di un contadino fiammingo ha vestito la prima maglia gialla del Tour de France e Fabio Jakobsen ha vinto la seconda tappa di Nyborg alla fine d’un ponte.
Un ponte lunghissimo, il Grande Belt dei 17 chilometri sospesi a sessanta metri sul livello del mare, fra le isole di Zelanda e Fionia. Un ponte che tra vorticose arie avrebbe dovuto sconvolgere il Tour, invece niente: è stato più difficile dir vento in danese (Storebæltsforbindelsen) che pedalarci sopra.
È stato normale per tutti e finalmente anche per Fabio Jakobsen traversare un ponte, da un punto A a un punto B, per sentirsi felice, un «miracolato felice», e vincere la sua prima tappa al Tour de France.