Doveva essere l’epica di Novak Djokovic e la sua ultima immensa missione, dell’impresa più grande, una saga di grandezza regale e del suo Grande Slam. É diventata la storia del cigno nero. Una storia montata al contrario, come il tennis di Daniil Medevdev con la sua trama imprecisa e ingannevole. Ingannevole sì, illogico mai. Anzi, non poteva che essere Medvedev in pelle e ossa, con quella faccia da sergentino impudente tirato fuori dai romanzi russi e quel gioco diversamente brutto da non crederci.
Tutto al contrario, come il suo giro di spin che ti senti sporco addosso, con quella racchetta che tira come un fucile a pallettoni, anzi come una doppietta da caccia, prima e seconda battuta esplose uguali. Un colpitore arrogante che ti spara addosso dall’alto al basso e ti piega le corde o scava buche intorno, che prima o poi ci cadi dentro. Illogico? Nient’affatto, perché fare della bruttezza un talento è bravura speciale… E Daniil Medvedev ci ha vinto il primo Slam.
Daniil Medvedev, l'antagonista perfetto
D'impreciso c'è forse tutto il resto. Il suo volto incavo, i suoi occhi vacui, i capelli spettinati, la maglia troppo larga, le gambe che paiono trampoli, una finale privata di remota bellezza, scivolata via da un cemento imbrattato di colpi netti, l’esultanza che è cosa di videogame, L2 + sinistra. Chi scrive si scusa di non capirci affatto e di averla scambiata per la mimesi della capra che sviene. Invece è roba di livello Leggenda e allora passiamo a Djokovic.
La danza macabra di New York
Novak Djokovic ha vinto 27 match consecutivi nei major trionfando a Melbourne, al Roland Garros e a Wimbledon. L’ultima sua sconfitta negli Slam era stata per squalifica a New York, su questo stesso campo. Fu incredibile quel giorno e clamoroso oggi, sfumato il Grande Slam di chi avrebbe potuto, anzi dovuto compiere del tennis l'opera più mirabile. Una sacra liturgia che diventa danza macabra, mentre Nole si scopre umano e piange e trema a un game dal fallimento della sua missione.
Novak Djokovic, l'inedito sconfitto
C’è chi dice che se si rigiocasse questa finale dello US Open dieci volte, dieci volte la vincerebbe Djokovic. Che senza la pressione del Grande Slam o una certa cognizione di santità, Djokovic avrebbe vinto il suo ventunesimo major come nessuno mai. Nient’affatto, perché su questo campo di battaglia Medvedev è destinato a spianare molti nemici, sembra evidente, però c’è stato qualcosa di tristemente liberatorio nelle parole di Novak fragile al centro dello stadio, stringendo fra le mani il piatto del secondo: «Grazie New York, perché non mi avevi mai fatto sentire così amato».
Finale riuscito: la conquista del pubblico
Djokovic aveva un destino crudelmente vincente, fischiato a ogni latitudine per esser stato l’antagonista del divo Federer uno e trino, pure nel senso di tre volte battuto a Wimbledon dal cattivissimo Nole. E suo malgrado, finalmente acclamato da una platea bollente, ha assaporato a New York quel gusto acre, eppure squisitamente romantico della sconfitta. Rinunciando per sempre alla normalità, gli occhi di Djokovic accolgono una nuova pienezza. Aveva vinto tutti tranne il pubblico, aveva bisogno di perdere per conquistarlo. Per sentirsi come i per sempre amati Federer-Nadal nel quarantennale newyorkese dell'ultimo Borg-McEnroe. Guerra e pace.