Un’ottima carriera da calciatore tra Cremonese, Atalanta e Juventus. Decisamente importante e ricchissima di capitoli quella in panchina, in alcune fasi anche esaltante. Come nell’estate 2012, quando solo la meravigliosa Spagna di Vicente del Bosque impedì alla sua Nazionale di diventare Campione d’Europa.
Il percorso di Cesare Prandelli, ovviamente, non è solo questo: c’è tanto altro. La sua storia inizia nel 1990, quando (ri)entrò a Zingonia per allenare in uno dei settori giovanili più prestigiosi al mondo. Poi i “grandi” e molte sfide: alcune indimenticabili e vinte, come quelle di Verona, Parma e Firenze. Altre meno (vedi Galatasaray e Valencia), ma anche queste sono servite per arricchirlo dentro, nel carattere. Il carattere di un autentico signore del calcio che oggi, a distanza di quattro mesi dall’annuncio del ritiro, si gode la famiglia e guarda il calcio con un occhio diverso: “E in maniera totalmente serena. Non ho intenzione di tornare ad allenare, ma la passione c’è e ci sarà per tutta la vita. E ho un desiderio”.
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Le parole di Cesare Prandelli nell'intervista a DAZN
Questi i temi trattati da Cesare Prandelli nel corso dell'intervista per DAZN.
Un desiderio, Prandelli, che può essere considerato come una sorta di appello?
“Assolutamente, perché credo si stia prendendo una strada sbagliata. E più passa il tempo, più sarà complicato porre rimedio. Penso al modo in cui il nostro sistema stia puntando sui giovani: ci rendiamo conto che stiamo correndo il rischio di negare ai bambini la possibilità di sognare?”.
In particolare, a cosa si riferisce?
“A certe idee che ostacolano i vivai, alla finalità che viene attribuita al percorso nei vivai: com’è possibile che con ragazzini di 10-12 anni si lavori sulla tattica? La storia l’ha fatta e la farà sempre il talento, non il sistema di gioco. Che non dico non serva, ma fino a una certa età bisogna lasciare spazio esclusivamente alla fantasia, al divertimento, al talento. Non ‘ingabbiamo’ i nostri ragazzi dietro a noiosi esercizi tattici. In questo modo, facciamo solamente il loro male”.
Può fare un esempio per spiegare questo concetto?
“Recentemente sono andato a vedere una partita di mio nipote di 8 anni. Nella squadra avversaria c’era un bambino che aveva un mancino incredibile e mi creda: non capita tutti i giorni di vedere certe giocate a questa età. L’allenatore, piuttosto che lasciarlo libero e spingerlo a cercare la giocata, il dribbling, la conclusione, piuttosto che semplicemente lasciare spazio alla sua imprevedibilità, gli chiedeva un certo tipo di movimento, come se lo stesse 'telecomando'. Le sembra una cosa normale?”.
Il problema, quindi, nasce anche da qui.
“Certo. Chi lavora con i giovani deve avere una missione molto chiara: il talento viene prima di tutto. Vincere uno Scudetto o un Viareggio può fare piacere, ma non deve mai essere l’obiettivo principale. Lanciare un giovane in Prima Squadra deve essere l’assoluta priorità: chi non lo capisce, è meglio che cambi mestiere. Se limitiamo il talento, il nostro calcio è finito. E non credete a chi dice che in Italia non ce ne siano: il nostro Paese ne è pieno, basta cercarli”.
A che età si dovrebbe introdurre la tattica?
“Non prima dei 14 anni. Fino ad allora contano divertimento e tecnica, bisogna insistere sulle qualità tecniche del ragazzo. Ai miei tempi capitava che il movimento tattico si capisse naturalmente, senza qualcuno che te lo spiegasse: non serviva nemmeno stare sul campo ore e ore a provare e riprovare. Oggi in Serie A TIM succede di vedere degli errori tecnici banali: penso non serva chiedersi il motivo”.
Per migliorare la situazione del calcio italiano, quale altro passo considera necessario?
“Investire nel settore giovanile, non c’è altro modo. Lo ripetiamo da 20 anni, ma ancora non ci siamo. Se economicamente non possiamo competere con gli altri Paesi, quale deve essere la strada? Servono coraggio e fantasia: solo così possiamo colmare o diminuire il gap con gli altri campionati”.
C’è qualche giovane che l’ha particolarmente impressionata?
“Tanti, non serve fare nomi. Siamo competitivi in tutte le Nazionali giovanili, nonostante il negativo Europeo dell’Under-21. Inoltre, Maurizio Viscidi (coordinatore delle Nazionali giovanili maschili, ndr) è una garanzia. I problemi sono altri e ne stiamo parlando”.
Il bravo allenatore è quello che si adatta alle caratteristiche dei calciatori per farli rendere al meglio?
“In generale è così, ma ci sono casi e casi. Prenda il Napoli, che a un certo punto ha rinunciato contemporaneamente a Koulibaly, Insigne e Mertens. Cos’ha fatto la dirigenza? Ha cercato dei sostituiti con caratteristiche simili, poi Spalletti è stato bravissimo ad allenarli sul campo adattandoli al proprio calcio. Il Napoli è un esempio corretto di come si debba programmare”.
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Parlando di allenatori emergenti, chi sarà il prossimo top della panchina?
“Thiago Motta, zero dubbi: è un predestinato. Già in campo era un giocatore-allenatore. Ha personalità e propone un calcio propositivo, ma sa qual è il suo più grande merito? Non è un integralista, sa cambiare in base a vari aspetti. Bene anche Palladino e Dionisi, mentre Italiano è ormai una garanzia”.
Eppure, quelli esperti e vincenti, ci sono ancora.
“La carta d’identità non conta, a patto che tu riesca a rinnovarti. E gente come Sarri e Gasperini l’ha sempre fatto. E non posso non citare Ancelotti, uno che ha vinto tutto e ovunque: dopo il Napoli lo davano per finito, per ‘bollito’. Dopo sappiamo tutti ciò che è riuscito a fare. In Italia, nei giudizi, non c’è mai equilibrio”.
Negli anni il calcio è cambiato, anche grazie alle idee di Guardiola: non trova che il gioco “moderno”, per alcune squadre, sia anche una forzatura controproducente?
“In Italia alcune squadre sono retrocesse proprio per questo: si sono snaturate. Posso pensare di proporre un certo tipo di calcio, ma devo chiedermi: ho gli uomini per poterlo fare? Il City è una squadra incredibile in cui il centrale di difesa può fare il regista e i terzini possono giocare sulla linea degli attaccanti, ma parliamo del City. Se non ho certi elementi, perché insistere? Al mondo esistono delle squadre e dei calciatori unici, che anche volendo non possono essere mai copiati”.
A lei, Mister, cosa manca di questo mondo?
“Il campo, la quotidianità, la preparazione dell’allenamento e della partita, la crescita dei ragazzi... Il contorno, invece, no. Sono sereno e mi godo la famiglia, mi sento realizzato e felice”.