Quand'è scoccata l'ora di gioco, Angel Di Maria lo sapeva. In cuor suo, e in quello dei tifosi, dei compagni, persino nell'abbraccio di Scaloni, la certezza era che la squadra, Messi e il Fideo per primo avessero fatto tutto quello che andava fatto. Ossia: giocare con lucida follia, sul filo sottilissimo tra un'incredibile tecnica e una garra tipica.
Serviva tutta l'Argentina per battere la spaventosa Francia, pungolata nell'orgoglio e riemersa nel finale per un miracolo chiamato Mbappé. Serviva in ogni sua sfaccettatura: la parte dura del carattere, quella docile della qualità palla al piede. Più Messi. E più di Messi. La medaglia al petto del Fideo brilla in maniera particolare, ma oltre le stelle, in questo Mondiale a tinte fortissime albiceleste, c'è stato un mondo di solidità. Un gruppo vero. Lo stesso che al Maracanà aveva spezzato una maledizione, tornando a generare la ilusiòn, e cioè il sogno. Realizzato. Ma con che fatica.
Messi più altri 10
Il coro del Lusail Stadium non è cambiato, nel testo e nei tempi verbali: continua a parlare di voglia, di ambizione, della "tercera", ormai tra le braccia della Scaloneta. La Coppa del Mondo è finita lì, proprio lì, tra le mani del mito, con una storia così fresca da dover tenere a bada l'inchiostro. Leo Messi ha aperto il bagagliaio di una carriera stellare e vi ha posto la vittoria più bella: nonostante la mole di vittorie, la sensazione è che ci fosse così tanto spazio per quell'istante. Così tanti pensieri lucidati. Così tanti pesi dissolti nel nulla, nella felicità del momento in cui la parata di Lloris si è spenta sul suo destro - un paradosso - e tra le lacrime diffuse di una panchina in felice sofferenza.
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Messi al 109 sembrava cambiare un destino, i percorsi, chiudere un'era di giocatori irresistibili e a tratti irrealizzati. Leo no: Leo ha fatto tutto. Ha dovuto aspettare i rigori, una parata sublime di Martinez poco prima. E ha vinto tutto. Ha vinto persino i fantasmi, i paragoni, ha deciso una finale del Mondiale nell'ultimissima partita disponibile. Ha chiuso a chiave l'ultimo briciolo di critica e si è marchiato a fuoco vivo, tutto argentino, nel grande racconto del calcio. La candidatura a migliore della storia è enorme: oggi chi avrà il coraggio di dire altro?
La generazione più forte
Non loro, non i compagni di squadra. Non questa spedizione argentina che ha visto passare davanti a sé il sogno e la paura, l'occasione sfumata 8 anni fa e poi la gioia, incontenibile, dell'obiettivo più grande. Persino delle proprie ambizioni. Ha vinto un'Albiceleste completamente diversa dalle altre: tostissima in difesa, l'arrogante caratteraccio emerso con l'Olanda, la fragilità all'apertura con l'Arabia Saudita e alla chiusura sul destro di Mbappè, che per tre volte l'ha privato del sonno.
Tutte le volte in cui il passo verso la fine è stato questione di centimetri, è emerso però un cuore differente. E' emersa una mano paziente. E' arrivato il sinistro, e pure il destro, di Leo Messi. Più il cuore (e il gol) di Mac Allister, più l'esuberanza di Martinez, più il rigore di Montiel. Decisivo, naturalmente, quasi quanto Lionel, tornato bambino, tra le lacrime, nella gioia. 36 anni dopo, il Diez è il più forte di tutti. E più forte di tutto.