Ricordo un giorno allo stadio con altri papà e un nutrito gruppo di marmocchi, la bocca spalancata e gli occhi dappertutto, a cercare il giocatore preferito e lo striscione più buffo, a perdersi tra le luci, i suoni, i colori.
E ricordo pure la persona dietro di noi e quello che immagino fosse suo figlio, età stimata otto o nove anni, un foglio A3 in mano sul quale aveva scritto: “Frosinone fai schifo”.
Fu uno schiaffo forte, più che il sorriso del piccolo quello compiaciuto del padre, visibilmente a caccia di complici: “Forte, eh, mio figlio”, pareva sottintendere, e certamente l’idea di scrivere quel cartello proveniva da lui, perché un bambino di otto anni o è il Grinch o per il Frosinone ultimo in classifica con entrambi i piedi in Serie B non può che provare un minimo di simpatia, solidarietà, sostegno (come per il ragazzino dai capelli rossi che si è appena trasferito in classe e non conosce nessuno o il compagno di minibasket che non riesce nemmeno ad arrivare al ferro, o come per Paperino nei confronti di Gastone, del resto).
“Frosinone fai schifo” fu una di quelle cose che ti fan crollare la mascella, perché lo sport è l’esatto opposto di quel cartello, e i valori dello sport, quelli che dobbiamo cercare di trasferire con tutto il nostro impegno e le nostre energie ai più piccoli, da subito, da quando scoprono l’esistenza del calcio, del tennis o della pallavolo, cozzano totalmente e indiscutibilmente con quel pensiero.
Non so se anche noi che facciamo comunicazione ci stiamo riuscendo o meno, a passarlo ai bambini. Sicuramente ci proviamo.
Vedo bambini, a scuola, che tifano per una squadra ma anche per l’altra della città, perché è la squadra del cuore dei compagni di classe, i migliori amici, e soprattutto perché papà e mamma non hanno insegnato loro che l’altra squadra fa schifo. Parlo con loro e sento cose belle, bellissime, e il primo pensiero è che quel seme di cultura sportiva se lo porteranno dietro per sempre e busserà un giorno, quando saranno grandi e il tizio di fianco a loro urlerà “merda” nel momento esatto in cui il giocatore avversario starà calciando il pallone.
Ero in uno stadio, l’altro giorno, quando un ragazzo di vent’anni ha visto passare l’allenatore avversario e lo ha mandato dove potete immaginare, insieme a un gruppo di bambini che spero non fossero i suoi allievi della scuola calcio. E mi trovavo in un altro stadio ancora qualche giorno prima, quando un padre gridava a un calciatore dell’altra squadra che non solo non lo stimava affatto per essere nato nella città rivale, ma che non stimava neppure sua madre, anzi. I suoi figli erano con lui, in quel momento, e immagino non provassero imbarazzo, perché se quello è il modello e quello è papà, non puoi che esserne fiero.
Abbiamo una responsabilità enorme, e non dobbiamo mai dimenticarcene: sposiamo gli sfottò, anzi sfottiamoci liberamente e con gioia, ironizziamo, ridiamo, divertiamoci, prendiamoci pure in giro, ma allontaniamo ogni forma di violenza, verbale o fisica, l’offesa e il turpiloquio, la bava alla bocca e gli occhi iniettati di sangue se l’arbitro non concede una rimessa laterale a favore, soprattutto se ci sono bimbi nei paraggi: è come parcheggiare l’auto sulle strisce pedonali o nel posto riservato ai disabili e poi farli scendere.
Parliamo dello sport ai bambini come facciamo dell’arte e insegniamo loro a non piangere quando si perde, perché nella vita perderemo chissà quante volte; spieghiamo loro come si gestisce la vittoria senza bullarsi, come l’avversario in difficoltà vada aiutato ad alzarsi e non invitato a morire, raccontiamo che si vince e si perde, si perde e si vince, il più delle volte perché l’avversario è stato più bravo e quasi mai per l’arbitro, la sfiga, il telecronista, il palazzo, la stampa.
E se sono cose banali, se il linguaggio pieno di ironia e amore per il calcio e le emozioni che sa regalare ai più piccoli che usiamo in “Scintille” e “C’era una porta” vi sembra zeppo di retorica e buonismo, viva allora la banalità, la retorica e il buonismo.
E viva per sempre il calcio, ovviamente, unito a tutto questo.