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Mario Mandzukic, un guerriero tra gli uomini

Mario Mandzukic, un guerriero tra gli uomini(C)Getty images
Mandzukic dà l'addio al calcio e lascia un vuoto molto difficile da colmare. Oltre i gol, oggi manca un combattente con la sua stessa qualità palla al piede

L'ultima sorpresa è stata un dribbling secco. O come venivano a lui: finte di movimento. Mario Mandzukic se n'è andato dal calcio giocato e appendendo le scarpette al chiodo ha deciso di svestire il suo mantello dell'impermeabilità: ha lasciato scorrere sentimenti e inchiostro, raccontando alla più piccola versione di sé tutto ciò che sarebbe arrivato, tutto quello che consapevolmente e inconsapevolmente si è trovato a vivere. Ha deciso, all'epilogo di carriera, di mostrare il lato dei veri duri: quello tenero e puro, nascosto sotto mille strati di lotta, voglia, fame, adrenalina, incazzature. Ha deciso di lasciare tutti col magone. E con un dubbio immediatamente trasformato in certezza: Mario Mandzukic è sempre andato oltre ciò che mostrava. In campo e fuori. 

Non sono certamente casuali gli omaggi - tantissimi - che arrivano da ogni parte del pianeta: Mario è stato universale e universalmente pericoloso. Ha vinto tanto in Germania, ha segnato un'era in Italia. Nel mezzo si è preso le botte e ne ha date parecchie pure in Spagna. Ne è uscito sempre pulito, duro eppure mai cattivo. Intenso e comunque mai sopra le righe. Era un attaccante atipico: mille armi a disposizione, poi amava combattere a mani nude

L'ultima parte

C'è una frase della lettera d'addio di Mandzukic che definisce perfettamente il tipo di persona, probabilmente racconta buona parte del professionista, quantomeno l'ultima. Scrive: "Hai capito quando smettere". Che è un torto all'interno della ragione, che non vuol dire per forza accettare le cose per come sono, eppure prenderne atto e smettere di lottare contro i mulini a vento e lasciarli serenamente girare, e girare, e girare. Ci vuole estrema intelligenza, del resto, ad arrendersi al tempo. In tanti non ce la fanno in una vita intera, buona parte del mondo continua a provarci adesso, in questo istante, per qualsiasi e disparata ragione. Mario ne aveva una piuttosto buona: si sentiva ancora un calciatore, fino alla firma con il Milan. Aveva deciso di accettare quella sfida per dimostrare a se stesso di poter ambire al massimo. Di poter fare la differenza nello stesso mondo dal quale era stato allontanato in fretta e furia. Si è fatto male. Non ha tenuto il ritmo. Ha capito che tra fare e disfare c'è di mezzo l'orgoglio. E di orgoglio lui ne ha ingurgitato litri e litri. Non poteva permetterselo, di sciuparlo così. 

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Per questo, paradossalmente, pur senza vittorie, l'ultima parte della vita calcistica di Mario Mandzukic è stata la perfetta sintesi dell'uomo: fino alla fine a battagliare, anche quando le forze scarseggiavano e la sceneggiatura non era più per l'attore principale, ma per un comprimario incaricato del plot twist, del cambio di carte in tavola. Della sorpresa che poi porta tutti al lieto fine, almeno il più delle volte. Scrivendo a sé, al suo ricordo di bambino, Mandzukic ha fatto esattamente questo: ha cambiato ancora una volta la percezione che tutti hanno sempre avuto di lui, del guerriero e dell'uomo, e si è teneramente trasformato in un individuo con sogni enormi e per qualcuno certamente troppo ambiziosi. Ci ha ricordato che il sacrificio è l'unico metodo, che di stradine e scorciatoie ne esistono a bizzeffe: ma quando fai i conti con la realtà, quegli extra chilometri servono a fare i polmoni e a ridarti fiato in salita. Pur di vincere, Mario ha trasformato il modo di essere Mandzukic. Da bomber seriale ad alfiere buttafuori. 

Una carriera di tutto

Le medaglie al collo sono sempre state tante, e questo lo deve anche ai centimetri conquistati giornata dopo giornata. Sin dai tempi della Marsonia, quando era già dipinto di bianconero e quel club che l'aveva accolto solo a 10 anni riuscì a lanciarlo subito in alto, come un razzo senza countdown. Dinamo Zagabria - tre anni da fuoriclasse - e la chiamata del Wolfsburg, dove fatica e patisce (eccoli lì, i polmoni del sacrificio) il dualismo con Edin Dzeko. Sarà Magath a svezzarlo definitivamente e a dargli una nuova dimensione, da punta di supporto e poi da centravanti, ruolo coltivato al Bayern Monaco nella storia forse più bella della sua carriera. In un solo mese, nel magico 2013, vincerà Bundesliga, Champions League e Coppa di Germania. Sembra possa anche volare, sulla fascia e in mezzo, fa gol e fa la storia. Un'ala gliela spezza Guardiola, quell'altra Lewandowski. E mentre con il Cholo all'Atletico Madrid è prima amore e poi odio, è la Juventus la sua storia più duratura. Fatta di scudetti, di coppe, di una finale di Champions League in cui fa un gol meraviglioso e ben presto nel dimenticatoio.

Ecco, la Juve è stata una roba a parte. E' stata un flusso di emozioni e un'energia condivisa, spesso con lo stadio. Mandzukic aveva travolto i tifosi con quella rabbia che sempre più spesso è mancata ai bianconeri dopo la sua partenza: nel suo lavoro da acceleratore di adrenalina, aizzava ed esaltava, dava la scossa e spegneva la paura. Era il carattere di una squadra che ruggiva e che così completava quel gap inevitabile e dettato da mille fattori. Ma non chiamatelo underdog, Mario non lo è mai stato. Si è divertito a farlo perché lo sentiva più vicino alla sua natura, quella di un bambino arrabbiato e vivace, smussato e reso grande in Germania, che in Italia si è ritrovato un guerriero tra gli uomini. Non una frase a caso: quel tributo lì, allo Stadium, resta una delle eredità più belle che si possa riscuotere in un campo da calcio. 

I numeri di Mandzukic

SocietàPresenzeGolAssist
Juventus FC1624417
Dinamo Zagabria1125335
Bayern Monaco884814
Wolfsburg602012
Atletico Madrid43205
NK Zagabria25111
Milan11--
Al-Duhail71