Il calcio non è mai soltanto calcio. Lo sport si fa carico e spesso portavoce delle dinamiche sociali e delle "tensioni della storia", per dirla alla Vittorio Zucconi. In alcuni frangenti più che in altri. Per questo il Mondiale è così affascinante: in campo non scendono in campo solo divise, ma bandiere; non solo calciatori, ma cittadini di una nazione. E quando ad affrontarsi sono popoli che si percepiscono l'un l'altro come "nemici", il calcio può essere una grande occasione.
Quella che andrà in scena il 29 novembre all'Al Thumama Stadium di Doha tra Iran e Stati Uniti, non stiamo neanche a dirlo, rappresenta in questo senso LA partita. Non solo dal punto di vista politico, ma anche tecnico, perché parliamo di due scuole calcistiche cresciute enormemente nel giro di 24 anni. Da quando, cioè, le due Nazionali si sfidarono per la storica prima volta al Mondiale di Francia 98.
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Persia contro America
Fin dalla crisi degli ostaggi del 1979, che determinò una rottura totale delle relazioni, USA e Iran sono nemici ideologici giurati. Da una parte l'egemone globale, dall'altra una grande potenza orientale che con Khomeini è definitivamente retrocessa all'etichetta di Paese "islamista e ostile all'Occidente". Ma un giorno di giugno del 1998 sembrava fatto apposta per dare uno squillo al mondo attraverso la potente leggerezza dello sport. Capita dunque che le dichiarazioni di un leader in campo diventino anche dichiarazioni politiche dalla forza prorompente. Come quelle del bomber iraniano Khodadad Azizi, nominato Calciatore asiatico nel 1996, che prima del match affermò: "Noi non perderemo questa partita. Tante famiglie dei martiri aspettano la nostra vittoria. Noi vinceremo per il loro bene".
Non un uomo né un calciatore qualunque, perché Azizi segnò una delle reti più importanti per la Nazionale iraniana: quello del 2-2 nello spareggio contro l'Australia per ottenere il 32esimo e ultimo pass per la Coppa del Mondo di Francia. A vent'anni dall'ultima partecipazione, ad Argentina 78, in cui tornò a casa con un solo punto e gol fatto (nell'1-1 contro la Scozia).
Il precedente storico: Iran-USA 2-1
All'appuntamento Mondiale del 1998, dunque, partecipa anche l'Iran. Il 21 giugno, il primo giorno d'estate, a Lione scende in campo contro gli acerrimi avversari degli Stati Uniti. Questi ultimi, dal canto loro, non si presentano affatto come comparse, forti dell'entusiasmo dall'organizzazione del Mondiale precedente. I persiani però mettono in campo una motivazione fuori dal comune, oltre a una qualità tecnica finora inedita per la selezione iraniana.
Le reti di Hamid Estili e Mehdi Mahdavikia valgono una vittoria storica: la prima in una Coppa del Mondo, contro i loro avversari totali. L'Iran batte gli Stati Uniti, ai quali non basta il gol nel finale di Brian McBride, e si posizione terzo nel girone proprio davanti agli odiati yankee. Quel giorno, come nello spareggio contro l'Australia, il calcio entra a gamba tesa nella storia del Paese e si scrolla un bel po' di polvere dalle spalle. Da Teheran a Persepolis, da Isfahan a Shiraz: le televisioni di tutto il mondo trasmettono la festa dei tifosi iraniani, mostrando che per le strade del Paese circola molto più alcol di quello che il regime degli ayatollah voleva far vedere. Ma non solo: sotto il cielo persiano si scatenano anche le donne iraniane, il cui movimento di protesta ed emancipazione muove decisivi passi proprio in quei giorni. Idolatrano i calciatori, sfilano e urlano sulle camionette con rossetto e bandiere persiane dipinte sulle guance, senza limiti di vestiario o di canto. E che canto: non melodie tradizionali persiane, ma canzoni dei grandi del rock americano come gli AC/DC, sparati a decibel da rave. È troppo per chi comanda: scatta la censura delle immagini, ma è troppo tardi.
Un anno e mezzo dopo, nel gennaio del 2000, Stati Uniti e Iran si ritrovano di nuovo l'uno di fronte agli altri in un match amichevole a Pasadena. Icredibile: l'Iran vola e gioca sul territorio dell'odiata America. Il risultato (1-1) passa in secondo piano, perché la partita mostra al mondo un afflato di fratellanza tra i calciatori, cittadini prima che professionisti dello sport. Ancora una volta, il calcio si propone come termometro sociale d'elezione per stemperare le tensioni politiche. Nel 1998, dopo la sconfitta per 2-1, era stato il difensore americano Jeff Agos a sintetizzare questa verità: "Abbiamo fatto più noi in 90 minuti che i politici in 20 anni".
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Gli Stati Uniti cercano la consacrazione
Che gli USA vivano lo sport come parte dell'epica e dell'identità della Nazione, è cosa nota. Un approccio totalizzante che non poteva più escludere il soccer dal pantheon che include baseball, football e basket. Un quarto di secolo dopo, gli americani si presentano al Mondiale in Qatar con grande motivazione e potenziale tecnico. Lo dimostra il pareggio contro la corazzata Inghilterra, tra le favorite per la vittoria finale.
Merito di una difesa granitica e un centrocampo solido: il muro centrale arretrato Zimmerman-Ream si è rivelato davvero ostico da valicare, mentre il più giovane capitano di questi Mondiali, Tyler Adams, ha mostrato a tutto il mondo le sue qualità di interditore e organizzatore di gioco. Brillando più di stelle affermate come lo juventino Weston McKennie e il fantasista del Chelsea Christian Pulisic. Grinta, tecnica e velocità sono assicurate anche dal figlio d'arte Timothy Weah e Yunus Musah.
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L'Iran contro la Storia
È difficile, tremendamente difficile parlare di Iran oggi. Le tragedie umane come quella di Mahsa Amini, le proteste, la repressione, la censura non permettono di spogliare qualsiasi discorso da implicazioni politiche e sociali. Tenteremo comunque di dire qualcosa, sempre col più profondo e sincero rispetto per chi in un modo nell'altro è coinvolto. E per autentici beniamini per i tifosi persiani come Sardar Azmoun e Mehdi Taremi, leader carismatici e tecnici e stelle anche delle loro rispettive squadre di club: Bayer Leverkusen e Porto.
L'embargo totale ha stretto attorno al collo dell'Iran un giogo letale (anche) per quanto riguarda il calcio internazionale. Nessuno poteva (e voleva) andare a giocare a Teheran e la Federcalcio locale non aveva mezzi e risorse per viaggiare e andare a disputare partite all'estero, dove comunque nessuno (o quasi) li avrebbe ospitati volentieri. E non giocare contro squadre africane o europee segna il tuo cammino e la tua evoluzione calcistica, perché poi in occasioni come i Mondiali ti ritrovi a dover sfidare proprio quelle squadre.
L'allenatore, Carlos Queiroz, ha una difficoltà in più: mettere assieme i due mondi differenti, opposti per certi versi, dei giocatori rimasti a casa nel campionato persiano - armonizzando le forze provenienti soprattutto dai top club Persepolis ed Esteghlal, dai quali ha convocato - e di quelli che invece giocano all'estero. Sono figli della Diaspora, originari di famiglie perlopiù benestanti che hanno avuto la possibilità di emigrare in Europa (in particolare Germania), Canada e ovest degli Stati Uniti. E che portano nella loro Nazionale una cultura persiana (non solo del pallone) rivisitata.
Un popolo fiero con radici di tremila anni, che con fatica riesce a distinguere le questioni sociali da quelle religiose e sportive. Tutto è parte del tutto, con la stessa dignità. Al netto di tutte le derive tremende e aberranti di responsabilità dei regimi, non della popolazione, che anzi paga due volte il prezzo carissimo di quelle aberrazioni: col sangue e con la reputazione internazionale. E che oggi più che mai vuole scrollarsi di dosso la terra bruciata prodotta da chi ha guidato il Paese. Soprattutto in Qatar, soprattutto in mondovisione, con gesti che urlano il rifiuto dell'estremismo e della violenza, come la scelta dei calciatori iraniani di non cantare l'inno nel primo match contro l'Inghilterra. E come la scelta di cantarlo a squarciagola insieme ai tifosi nella partita successiva contro il Galles, con le lacrime a bagnare occhi neri e profondi come se ne vedono solo nell'antica e fiera Persia.