Grida e insulti, sceneggiate e mezze risse. Ma la Juve non l’ha vinta, la Coppa Italia? Sì, l’ha vinta, eppure è precipitata in un caos incomprensibile: dal momento in cui la partita con l’Atalanta è terminata - anzi, da qualche minuto prima che l’arbitro fischiasse la fine - il mondo bianconero è diventato un terreno di aspro confronto anziché un luogo di festa. Un paradosso: di solito le vittorie portano gioia e serenità, stavolta hanno generato scompiglio. Paradosso nel paradosso: se la Juve fosse uscita sconfitta, quasi sicuramente non sarebbe successo nulla di tutto questo; allenatore, giocatori e dirigenti se ne sarebbero andati a testa bassa e il confronto interno (con tanto di esonero del tecnico a fine stagione) sarebbe stato gestito in privato. Invece no. È stato Allegri a scatenare il terremoto, prendendosela un po’ con tutti: arbitro e designatore, dirigenti (i suoi, non quelli avversari) e giornalisti, perfino apparecchiature fotografiche. Come se la vittoria avesse scatenato tutto quello che Max aveva dentro, accumulato evidentemente in giorni, settimane e mesi di tensioni elevatissime, tenute (abbastanza) nascoste dentro di sé fino a quel momento. A un certo punto, quando ha visto il traguardo vicino, all’allenatore della Juve è saltato via il tappo, e ha riversato il contenuto avvelenato addosso a tutti coloro che riteneva responsabili di avergli fatto qualche torto. Non si è goduto il successo, non l’ha vissuta come una bella rivincita sulle critiche, anche pesanti, che gli sono piovute addosso nel recente passato. Poteva mettersi lì, tronfio, e bearsi dei risultati. Volevate la qualificazione alla Champions? Eccola. Volevate la Coppa Italia? Ecco qui anche quella. Ora cacciatemi pure, ho fatto il massimo che potevo e comunque tutto ciò che mi avevate chiesto. Niente di tutto questo: Allegri ha perso il controllo di se stesso, completamente. Tutto molto umano, forse. E anche molto, molto sbagliato. Perché un grande professionista come lui, allenatore di uno tra i club più grandi del mondo e lautamente retribuito, non può permettersi di perdere il controllo. Non fino a quel punto, almeno. Allegri lascia la Juve in rottura totale con la società, soprattutto con Giuntoli, l’uomo a cui Elkann ha affidato il compito di ricostruire la squadra bianconera. Molti tifosi vivono l’addio dell’allenatore come una liberazione, era accaduto lo stesso quando era stato esonerato dopo i cinque scudetti consecutivi: allora volevano un tecnico che facesse giocare meglio la squadra, ora si aspettano che il successore di Max - Thiago Motta - la riporti a lottare fino alla fine per lo scudetto. Ma non va dimenticato che, quando l’Inter ha portato via il titolo a Pirlo, una parte consistente del popolo bianconero ha cominciato a rimpiangere Allegri, finché non è tornato. E anche oggi tra i tifosi ce ne sono diversi - si fanno sentire pure allo Stadium - che rimangono dalla parte dell’allenatore. Così come la squadra, la cui vicinanza a Max si è notata pure nella burrascosa notte romana: a parte poche nascoste eccezioni, i giocatori sono con lui. Del resto non ha mai fatto mancare la sua protezione al gruppo e anche nei momenti più difficili non ha scaricato le responsabilità degli insuccessi sui calciatori, al contrario di suoi illustri colleghi. Licenziato Allegri, la Juve perde - se vogliamo - anche un parafulmine. Per questo Giuntoli non può permettersi di sbagliare il mercato, benché sia costretto a contare su risorse economiche non sufficienti per movimenti straordinari. Dovrà ingegnarsi: vendere bene e acquistare ancora meglio. Finora il suo contributo alla causa è stato impalpabile: l’estate scorsa non ha avuto la possibilità di intervenire, a gennaio ha preso Alcaraz e Djaló il cui apporto è stato praticamente pari a zero (a fronte di un costo non proprio irrilevante tra il prestito dell’argentino e l’acquisto del portoghese). Ora occorre un cambio di passo. Dopo questa stagione di transizione, la Juve da agosto dovrà tornare a essere competitiva ai massimi livelli. L’obiettivo non potrà essere il quarto posto per avere la certezza di andare in Champions. Il club bianconero - come hanno sempre sostenuto i grandi dirigenti del passato - può anche non conquistare lo scudetto, ma deve sempre partire per vincerlo. È scritto nella sua storia. Tocca a Giuntoli e Thiago Motta riportarlo molto più in alto di quanto non sia adesso. E per farlo non sarà sufficiente cambiare allenatore, perché il problema principale della Juve non è l’uomo seduto in panchina: è la qualità dei calciatori. Non di tutti, chiaro: il Vlahovic di mercoledì, ad esempio, è tra i centravanti più forti d’Europa. Ma di Vlahovic ce n’è uno, e non basta.
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Allegri scatena il terremoto e rovina la coppa. Tocca a Giuntoli, ma il 4° posto non è da Juve
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