Avversari spesso, nemici mai. E sì che di battaglie uno contro l’altro ne abbiamo combattute parecchie, specialmente a Roma, quando i derby valevano gli scudetti. Io sulla panchina giallorossa, lui in quella della Lazio. Quando penso a Sven Goran Eriksson, però, davanti agli occhi non mi trovo mai un rivale. Anzi, il ricordo più bello di lui con il campo non c’entra nulla. Era estate e mi trovavo con mia moglie in vacanza in Portogallo, quando un giorno Sven mi invitò nella sua casa di Cascais. Un posto splendido, a 200 metri dall’oceano, con una vista straordinaria. Eriksson l’aveva arredata con mobili di prestigio, tutti italiani. Era un uomo di classe, non c’è che dire. Per una volta, passammo tutto il pomeriggio a parlare di altro che non fosse il calcio.
La famiglia, il mare, le cose della vita. Fu un momento molto bello, che conservo ancora oggi. Se dovessi scegliere un incontro in particolare giocato contro una squadra allenata da Sven, non avrei dubbi: il nostro primo derby della Capitale da avversari del 21 novembre 1999. Avevo preparato la sfida dicendo ai miei di sfruttare la zona di campo dove giocava Mihajlovic. Sinisa era eccezionale nel salire, ma così ogni tanto la Lazio finiva per scoprirsi troppo. Fu un’intuizione azzeccata, perché dominammo e vincemmo 4-1. Immaginatevi l’entusiasmo nella Roma a tinte giallorosse. A fine stagione, però, a festeggiare fu Sven: la sua straordinaria Lazio vinse lo scudetto e noi finimmo sesti. Per fortuna, ci rifacemmo l’anno dopo, mantenendo il tricolore in città, ma colorandolo di giallorosso. In effetti, io ed Eriksson abbiamo questa cosa in comune: siamo gli ultimi due allenatori ad aver portato lo scudetto a Roma. Un motivo in più per ricordarmi di Sven con un sorriso.
Ciao, grande signore. Poi certo, ci sono i ricordi delle tante sfide. Sven aveva già fatto benissimo in patria al Goteborg e poi in Portogallo, al Benfica, prima di venire in Italia. È stato un grande anche come allenatore e non solo per le vittorie. La sua Sampdoria prima e la sua Lazio poi erano squadre forti e piacevoli da guardare. E in campo e fuori, lui mi ricordava Niels Liedholm, che conoscevo molto bene. Eriksson veniva dalla scuola del Barone, non solo per i concetti di calcio, ma per la signorilità nelle dichiarazioni, l’eleganza nei modi e l’educazione tipicamente svedese nei confronti di arbitri e avversari. Non ne potevi parlare male. E infatti, pur nella tensione di quegli anni, quando Roma e Lazio giocavano sempre per vincere, non ricordo una parola fuori posto, sua o contro di lui. Nemmeno le “famigerate” radio romane potevano far polemica su di un signore come Eriksson. Era davvero impossibile.
Fonte: Gazzetta.it