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Calcio

Conte, voglia di punti e applausi: il suo ritorno allo Stadium, che stavolta sarà pieno

G.B. Olivero
Conte, voglia di punti e applausi: il suo ritorno allo Stadium, che stavolta sarà pienoN/A

È sbagliato il punto di partenza. Si pensa e si dice che Antonio Conte sia un tifoso della Juve. Come Maldini del Milan o Totti della Roma. A prima vista è così, ma bisogna guardare in controluce per cogliere le sfumature e quindi la verità. Conte e la Juve non potevano non incontrarsi: erano fatti l’uno per l’altra e magari lo sono ancora, ma forse non lo sanno o preferiscono nasconderselo. Il percorso di Antonio è stato diverso da quello di altre bandiere: lungo, tortuoso, affascinante, illuminato dalla forza di volontà e dal desiderio di arrivare ben più che dal talento. Antonio da bambino iniziò a giocare nella Juventina Lecce, una piccola società in cui suo padre Cosimo faceva un po’ di tutto. La maglietta era bianconera. Indossandola, il piccolo Conte cominciò a pregustare il futuro. La Juve lo comprò nel 1991, ma fu lui a far sua la Juve: giorno dopo giorno, dal primo allenamento con Trapattoni fino all’ultimo con Lippi nel 2004. Non solo un tifoso che ha coronato il suo sogno, ma un ragazzo che si è dimostrato degno di quello spogliatoio e lì ha scalato le gerarchie: riserva, titolare, leader, capitano. Ha iniziato prendendo lezioni di juventinità da Boniperti e Brio (leccese come lui e vice allenatore di Trapattoni) e ha proseguito impartendole volta per volta ai nuovi acquisti. "Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta" l’ha sentito dire chissà quante volte dal suo amato presidente, ma aveva maturato da solo lo stesso concetto prima di sbarcare a Torino.

Questione di dna. Non a caso sua figlia si chiama Vittoria.  Però proprio l’ossessione per la vittoria, stavolta con la minuscola anche se Antonio troverebbe da ridire, lo ha portato a ragionare sempre da professionista: quando guidava la Juve, Conte disse che non avrebbe avuto problemi a sedersi su qualunque altra panchina. Il 29 marzo 2013, alla vigilia di una trasferta a San Siro contro l’Inter, il tecnico fu chiaro: "Sono l’allenatore della Juve e il suo primo tifoso, ma il giorno in cui dovessi lavorare per l’Inter, come per il Milan o la Roma o la Lazio, ne diventerei allo stesso modo il primo tifoso e farei di tutto per vincere". È in pratica quello che ha detto ieri a proposito del Napoli ed è, soprattutto, la verità: non un modo di arruffianarsi la gente, ma il suo modo di pensare e vivere. Dovunque è andato, è sempre stato amato e il motivo è la totale immedesimazione. Conte non allena un club: diventa quel club. È stato un trascinatore, oltre che un tecnico eccezionale, all’Inter e lo è adesso al Napoli. Il tifo non è un problema, perché tra lui e la Juve, come detto, la questione è più profonda, diversa. E va perfino oltre gli sgarbi (qualcuno a Torino non gli ha mai perdonato l’addio improvviso del 2014), le liti da campo (come quella con Andrea Agnelli nel 2021), le speranze disattese. 

Domani Antonio torna a casa e sono due le cose che spera di riportare a Napoli dopo la partita: l’applauso del popolo bianconero e i tre punti. Il pallone è stato finora molto rispettoso del rapporto tra Conte e gli juventini. Le tre volte che il tecnico si è presentato allo Stadium da avversario, sempre con l’Inter, non c’era pubblico per l’emergenza Covid. Solo silenzio. Stavolta sarà bolgia, come piace a lui. E Antonio si emozionerà, perché certi momenti danno senso a tutto. A Torino sono sempre rimaste la moglie Elisabetta e la figlia Vittoria, a Torino è tornato dopo le esperienze a Milano e a Londra, sotto i portici della città ha risposto alla curiosità di tanta gente che vedendolo passeggiare gli chiedeva quando sarebbe rientrato alla Juve. Chissà. Questa poteva essere la volta buona, ma poi Giuntoli ha imposto la sua linea ed è arrivato Thiago Motta.  Conte non ama perdersi dietro ai ricordi, ma domani sarà abbastanza difficile dribblarli. Quello è lo Stadium che lui battezzò nel 2011, aprendo un’incredibile striscia di scudetti. E il campo è lo stesso del vecchio Delle Alpi, quando la pista d’atletica gli consentiva di sfogare la felicità dopo un gol correndo veloce fin sotto la curva. Tredici anni da giocatore e tre da allenatore: un bel pezzo di vita l’ha passato lì dentro. Un pensiero andrà lassù, da Gianluca Vialli e Gian Piero Ventrone: amici scomparsi troppo presto.

Gli scudetti; la Champions vinta nel 1996 (con il grave infortunio durante la finale di Roma); le sconfitte dopo le quali non ha mai dormito; gli appunti presi dopo ogni allenamento perché un giorno gli sarebbero serviti; i gol in quelle giornate lì, in cui sapevi che se non segnava lui non avrebbe segnato nessuno. E poi, da tecnico, il miracolo del primo tricolore, il record dei 102 punti, l’orgoglio ritrovato. "Questa non è la mia Juve" disse appena entrato a Vinovo dopo la firma del maggio 2011. E la ricostruì dalle fondamenta. "Gli sto entrando nella testa", ha detto qualche giorno fa a un amico a proposito della crescita esponenziale del Napoli. Entrare nella testa dei giocatori è per lui una sensazione appagante, che illumina la strada da percorrere. Il calcio di Conte è palpitante, adrenalinico, viscerale: ecco perché attecchisce ovunque. E’ la passione con la quale siamo cresciuti e che lui trasmette a tutti alimentandola ogni giorno. Non dite, allora, che Antonio Conte è un tifoso della Juve. Gli fareste un torto, anche perché oggi tifa Napoli e domani chissà cosa darebbe per vincere. Quella con la Juve è semplicemente un’altra cosa. Un’altra storia. Un’altra dimensione.

Fonte: gazzetta.it