Sven-Göran Eriksson aveva la capacità di calmarti e renderti parte di un tutto. Anche nei giorni di dolore, quelli in cui preferiresti gettare la spugna. Sven ci riusciva con i giocatori, con i tifosi, con i presidenti, con i giornalisti. Non era magnetico, né seducente. Era solo rispetto per l’altro, una forma antica di buona educazione. “Rispetto è una parola importante. Devo rispettarti anche se non hai un buon piede destro, anche se sei lento, anche se non hai mai giocato in A”. Se n’è andato a 76 anni, Eriksson se l’è portato via un tumore al pancreas. “I have a cancer. That’s it”, questo è, lo ha detto lui. E così Eriksson in questi ultimi tempi non ha mai perso istanti né energie ad arrabbiarsi, ha continuato a dedicarsi al calcio (“Ho guardato tutte le partite delle Olimpiadi e degli Europei”), ad ascoltare i silenzi di Torsby, nel Värmland, in Svezia, dov’era nato nel 1948. E ha continuato a sentire la vita fino all’ultimo, quella cosa bellissima e maledetta e fragile di cui è sempre stato innamorato. “Ho avuto una bella vita. Forse troppo bella. È triste, ma è anche bellissimo. Prendetevi cura di voi stessi e prendetevi cura della vostra vita. Sorridete. E vivetela”.
Sven senior, il padre, era un autista di autobus e Ulla, sua madre, lavorava in un negozio di tessuti. Sven guardava il calcio con il padre, tifosissimo del Liverpool ancora oggi che ha quasi cent’anni. “Sedevamo incollati davanti allo schermo, ma non riesco a ricordare nessuna partita o evento in particolare”. Il papà non giocava, ma portava il piccolo Sven a quasi tutte le partite locali. Torsby, la loro cittadina, non aveva molto da offrire. Poco chiasso, nessun eccesso: la domenica mattina proiettavano un film al Biograf Stjärnan, per il resto dovevi arrangiarti con lo sport. A tredici anni Eriksson lavorava come assistente fornaio durante le sue vacanze estive. Il panettiere, Asen, allenava la squadra locale di quarta divisione, il Torsby. “Era un incredibile tizzone che bruciava per il pallone. Forse il pensiero di diventare io stesso un allenatore è nato lì”, ha raccontato. Mentre cucinavano, i due parlavano di calcio. E secondo la leggenda Asen disegnava le tattiche nella farina sulle teglie mentre Sven sorrideva, commentava, alimentava il suo destino. Aveva tentato l’avventura con diversi sport, lo sci e il fondo soprattutto. E poi l’atletica e il trampolino elastico. “Sono arrivato a saltare settanta metri, poi mi è mancato il coraggio. A quindici anni ho smesso, anche perché intanto nella mia vita era entrato il calcio”. Era il 1964, aveva 16 anni: Eriksson fece il suo debutto nel Torsby. Giocava terzino destro, ma con i piedi non era granché, “avevo sempre l’impressione di essere in ritardo e difendevo così così, crossavo niente male”. La sensibilità di Eriksson comincia lì, su quei campi spelacchiati e anonimi, su cui il calcio è sempre qualcosa di ruvido, una questione di sopravvivenza. Si giocava per ruoli, il terzino si occupava dell’ala, ma già Sven sentiva di poter migliorare le cose, di potersi misurare con idee nuove, anche diverse, originali, uniche. A 18 anni lavorava all'ufficio assicurativo statale locale, la sera si allenava. Ha raccontato che una notte lui e i suoi amici esagerarono con qualche bicchiere di glogg, si misero a discutere di cosa avrebbero fatto della loro vita. Benedetti ragazzi che sognano. Eriksson disse che sarebbe diventato famoso. Apriti cielo. Ma come, famoso uno che viene dal Värmland? Impossibile. Era stata sua madre a dirgli che era speciale, e lui ci aveva sempre creduto. E lo ha fatto anche dopo, quando è diventato Eriksson.
Nel 1971 cambiò squadra e passò allo SK Sifhälla dopo essersi trasferito a Säffle per studiare economia. Un anno più tardi, Sven giocava per il Karlskoga in seconda divisione e insegnava educazione fisica. Fu il massimo che poteva ottenere come giocatore. A 27 anni lasciò per allenare. “Il calcio è sempre stato la cosa più grande e divertente per me”. Persino il matrimonio con Ann-Christine Pettersson, dalla quale ebbe due figli, fu rimandato di un giorno per una partita. Che cosa è stato il calcio per Eriksson non è facile da dire. Le risposte però ci sono, e si trovano negli occhi dei suoi giocatori, tanti, moltissimi campioni, tutti quelli che per lui hanno sempre avuto un’ammirazione speciale. Data dalla pacatezza e dal buon senso dell’uomo, non del tecnico. “Guardate la vita quotidiana di una società di calcio: quando venite ad allenarvi, gli abiti sono già pronti. Chi li ha messi lì? Il responsabile dei materiali. Chi li ha lavati? Due signore anziane sono nella lavanderia. Tutti sono importanti”. Questo senso di comunità glielo spiegò anche Tord Grip, l’allenatore del Degerfors. A 27 anni Sven era il suo assistente. Tra loro durò un anno, si sarebbero ritrovati anni più tardi alla Lazio: Grip andò ad allenare la nazionale giovanile della Svezia, Eriksson prese il suo posto. “Non mi sentivo un leader. Lo sono diventato quando ho dovuto prendere in mano il Degerfors”. Poco dopo arrivò la chiamata del Goteborg, il secondo club svedese. Eriksson aveva appena 30 anni, e pochissimi avevano sentito parlare di lui. “Ero molto nervoso prima del primo allenamento, era un allenamento invernale, freddo, ventoso e dannatamente difficile. È stata l’unica volta nella mia carriera in cui sono stato nervoso”.
Il nervosismo lasciò spazio alla tenacia, e alla bellezza del suo calcio. Finché realizzò l'impossibile vincendo la Coppa Uefa nel 1981-82 con dei giocatori semi professionisti. Negli anni Eriksson l’ha sempre messa sull’idea di gruppo, di unione, di insieme. Senza retorica. “Non so se fossi un buon manager - ha detto -, ma se ero bravo in qualcosa era creare una buona atmosfera nel club, non solo nella squadra. Penso che fosse questo il mio punto di forza, più della tecnica”. All'inizio degli anni Ottanta, al Benfica, il club con cui vinse scudetti e coppe, Eriksson era riuscito a impostare un calcio diverso, nuovo. Ribaltando le vecchie ideologie e mostrando nuovi modi di affrontare le sfide. Senza mai dimenticare il dialogo, le maniere dolci, e un senso democratico dell’esistenza. Una volta, mentre allenava in Portogallo, prima di una trasferta, chiese ai giocatori: “Dovremmo andare via subito dopo l’allenamento o pranzare prima?” “Non siamo pagati per prendere queste decisioni, questo lo può decidere il mister”, risposero. Ma Eriksson pensava che quel modo così svedese di approcciarsi agli altri poteva tirare fuori di più dai suoi calciatori. “Quando un giocatore bussa alla tua porta e ti chiede di parlare con te e dice che ha un'idea, allora sei arrivato dove vuoi arrivare. Questa è la leadership”. Per noi italiani Eriksson è stata un’immagine definita, dai contorni chiari. Gli occhiali, la fronte alta, l’accento inconfondibile. Un certo aplomb, l’ironia, il gusto della pacatezza. Più di altri si è prestato al dialogo, persino con la stampa, e in tv, nei programmi d’avanguardia e quelli di nonsense. L’Italia, del resto, è stato il grande amore di Eriksson assieme alle donne. Se ne innamorò in taxi, guardando da sotto le lenti le vie di Roma, in un giorno di gennaio del 1983. Il suo Benfica la Roma l'aveva affrontata nei quarti di finale della Coppa Uefa di quell’anno. “Andammo a spiarli per prepararci. Durante il tragitto in taxi dall’aeroporto al centro me ne innamorai. Così, all’improvviso. E quando entrai allo stadio mi dissi che quello era un posto in cui avrei dovuto lavorare, un giorno o l’altro”.
Arrivò prima del previsto perché diventò il tecnico dei giallorossi l’anno seguente. Era la Roma di Falcao, che arrivò a tanto così dallo scudetto. “Falcao giocò solo sette o otto partite quella stagione. Aveva un problema al ginocchio e il resto della squadra lo considerava il leader. Mi dissero: ‘Mister, non possiamo giocare senza Falcao’. E quando giocava, si vedeva la differenza". In Italia ci venivano tutti, se volevi essere il più bravo dovevi confrontarti con la Serie A. Si è sempre parlato dei giocatori, dei talenti che arrivano dall’Europa, dal Sudamerica, ma il discorso non è diverso per i tecnici. Eriksson fu tra questi demiurghi di un calcio bello, spettacolare, per tanti diversi indisciplinato, animato da una tattica intrisa di libertà. Lo stesso Sven, passato alla Fiorentina, ricorderà gli incontri con il Napoli di Maradona, il massimo quando si parla di calcio libero e fantasia. Nel 1988 ci giocò due volte nella stessa settimana, campionato e Coppa Italia. La Fiorentina di Eriksson vinse la partita di coppa 3-2. "Maradona non era realmente interessato alla Coppa Italia. Non fece molto durante la partita, ma dopo il fischio venne da me e scherzò: 'Mister, domenica, musica differente’. La domenica ci sconfissero 4-0 e lui fu inarrestabile". Una volta gli chiesero come lo avrebbe allenato lui, Eriksson, quel funambolo di Maradona. E Sven si fece una risata: “Maradona è Maradona. Alcuni giocatori hanno solo bisogno di essere lasciati liberi". A questa libertà Eriksson ha associato l’idea di gruppo, di coesione. Pensieri in antitesi, per certi versi. Ma con cui dovette fare i conti alla Fiorentina nel 1987, quando ereditò il ventenne Roberto Baggio. Eriksson lo ha sempre definito il giocatore più talentuoso mai allenato insieme a Rooney. “Baggio aveva tutto: tecnica incredibile, visione, ritmo. Ricordo una delle nostre prime partite in trasferta contro il Milan di Sacchi. Passammo solo due volte la linea di metà campo e segnammo due gol. Baggio ne fece uno. E non era una difesa qualsiasi. C'erano Baresi, Maldini, Costacurta e Tassotti”.
Quando arrivò alla Sampdoria, nel 1992, trovò Roberto Mancini, un altro che in fatto di talento e libertà non è mai stato secondo a nessuno. "Mancini gestiva il club. Chiamava la cucina e diceva loro che saremmo arrivati in ritardo, quindi tenevano la pasta calda. Chiamava il fattorino e si assicurava che tutto il kit fosse pronto per l'uso. Era coinvolto in tutto. Era come uno dei figli di Mantovani. Mancini e Vialli mangiavano regolarmente a casa sua". Dal club blucerchiato se ne andò nel 1997, ma non prima di aver conquistato una Coppa Italia (1994, ultimo trofeo del club) e inciso il suo nome nella memoria di tutti. Quando è tornato a Marassi, a maggio, già malato, ingrassato, ma sempre sorridente, lo hanno accolto 27mila persone. Una festa. A pensarci bene, la carriera di Eriksson è stata sempre una gioia, una festa. Anche nelle nervature acide di una sconfitta, nei momenti di tremenda rabbia agonistica, lui ha sempre trovato il modo di sorridere. L’apoteosi è bella, ma Sven sapeva anche perdere. “Sei egoista sotto molti aspetti, indipendentemente dal nome del club, vuoi sempre vincere. Per te e per il club. Un buon esempio è la Roma, che ho allenato. Tanti anni dopo allenavo la Lazio, che gioca nella stessa città, nello stesso stadio. Oggi sono romanista o sono laziale? Probabilmente entrambi”. Non è vero che Eriksson sembrava uscito da un chiaroscuro e luci soffuse dei film di Ingmar Bergman, Eriksson non si è mai crogiolato nella sofferenza, l’ha dominata. Ed è anche per questo che lo scudetto con la Lazio, drammatico quanto fantasioso, poteva vincerlo soltanto lui. In biancoceleste arrivò nella stagione 1996-97. Aveva firmato per un’altra società, in Inghilterra. “Stavo ritornando a Genova, dove abitavo. Il giorno dopo mi chiama Cragnotti e mi dice: ‘Vieni’. Io gli ho detto che avevo firmato per un’altra squadra, ma ho fatto di tutto per non onorare quel contratto e alla fine si è risolto tutto”. Portò la Lazio a giocare due finali di coppa al primo anno: la Coppa Italia che vinse contro il Milan (la Lazio non vinceva un trofeo da più di vent’anni) e la Uefa, persa 3-0 contro l’Inter. Tutti la ricordano come la notte di Ronaldo il Fenomeno. “Ronaldo poteva vincere le partite da solo ed è stato molto bravo nella sua prima stagione in Italia, ma è stata la nostra mancanza di mentalità il problema più grande”.
L’apice arrivò nel 2000, con la vittoria del campionato. Arrivò alle 18.04 del 14 maggio. Un momento preciso, unico, irripetibile. Il popolo biancoceleste lo visse alla radio, mentre i giocatori aspettavano la fine della partita della Juventus a Perugia cominciata un’ora dopo per via della pioggia. Fu un attimo perfetto per Eriksson e per la sua capacità di creare uno spogliatoio, un sistema. “Se sei un allenatore nuovo devi essere ben preparato e molto chiaro. È necessario avere un programma chiaro: ‘Lo faremo così'. Allora devi essere sicuro che ti capiscano. Devi convincere”. Convinse, sì. Prima di tutti gli altri Cragnotti. A comprare giocatori di altissimo livello, ovviamente. Quella Lazio stellare già collaudata da Eriksson negli anni precedenti si rafforzò ancora. Cragnotti, ha raccontato ancora Eriksson, “non mi chiedeva di vincere lo scudetto il primo anno, però io gli dicevo: 'Compra Mancini, Mihajlovic e Veron e vinceremo il campionato'. Quando l’abbiamo vinto davvero, sono andato da lui: 'Presidente, se comprava questi tre il primo anno, ne avremmo vinti tre'”. Ma uno per Cragnotti era sufficiente. Mentre per Eriksson niente è stato mai davvero abbastanza. È stato il primo ct straniero dell’Inghilterra (dal 2001 al 2006). Anche lì provò a unire tutti: “Possiamo vincere”. Non ci andò nemmeno vicino. È stato al centro di scandali da playboy. E in molti si stupirono. Ma chi, Eriksson? “Dissero che la mia debolezza era che mi piacevano le donne. Ma a chi non piacciono?”.
Il suo telefono cellulare fu violato per oltre tre anni e fornì prove utili all’inchiesta Leveson sulle pratiche e l’etica della stampa britannica. Ha allenato il Messico, la Costa d'Avorio, fatto esperienze in Arabia Saudita, in Cina. L’ultimo grande incarico è stato con sulla panchina delle Filippine nel 2018. “Forse volevo fare qualcosa di diverso”. Un giorno svenne, andò a fare dei controlli e gli dissero che aveva un cancro. Era gennaio, pochi mesi fa. Eriksson lo rivelò al mondo senza tanti preamboli. “E' meglio non pensarci. Puoi in qualche modo ingannare il tuo cervello, pensare positivo e vedere le cose nella maniera migliore, ma ricavare comunque qualcosa di buono da questa esperienza”. Se n’è andato sorridendo. Ricordiamocelo, riguarda tutti noi.
Fonte: gazzetta.it