La vita può sorprenderti, il calcio può sorprenderti. E regalarti gioie immense e inaspettate, anche a 40 anni. Felipe Melo de Carvalho sta vivendo un momento indimenticabile, perché conquistare il trofeo più importante con la squadra del cuore di mamma e papà non ha prezzo: 4 novembre 2023, finale della Coppa Libertadores al Maracana di Rio de Janeiro, Boca Juniors battuto e Fluminense campione. “Dopo la vittoria piangevo come un bambino, non può immaginare ciò che ho provato...”.
Felipe Melo, provi a raccontarlo.
“Grazie a Dio, in carriera ho vinto molto: circa 30 trofei, alcuni importanti e altri meno, ma questo è certamente uno dei più belli e prestigiosi. Per me è la terza Libertadores dopo le due con il Palmeiras, per il club la prima in assoluto. Abbiamo fatto la storia, le squadre rivali non potranno più dire che ci manca questa coppa. Ringrazio anche i nostri tifosi, sempre e comunque strepitosi”.
Vedere le sue lacrime già prima del calcio d’inizio è stato un bellissimo messaggio in un mondo, quello del calcio, dove sembra che la parte legata al sentimento stia via via diminuendo.
“Era emozione pura, sono diventato l’unico calciatore al mondo ad aver vinto due Libertadores allo stadio Maracana. Inoltre, in tribuna c’era la mia famiglia al completo e molti amici ed è stata la prima volta in cui sono riuscito ad alzare questa coppa davanti a loro. Anche mia nonna era presente! Il calcio è questo, non c’è nulla da fare: si può parlare all’infinito di denaro, ma alla base ci devono essere cuore e passione. Per me, è sempre stato così. Fin da quando ero un ragazzino. Senza questi valori, non puoi andare da nessuna parte”.
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Ora è aumentata la voglia di continuare oltre le previsioni? Lei è in ottima forma, ma non è più un ragazzino.
“(Ride, ndr). Ha ragione, ma ho rinnovato il contratto per un’altra stagione: poi vedremo cosa succederà. Magari andrò avanti, ho l’ambizione e la determinazione di giocare il nuovo Mondiale per Club nell’estate 2025”.
E una volta smesso, cosa farà?
“Resterò sicuramente in questo ambiente. Non escludo al 100% il ruolo del direttore sportivo, ma quasi certamente il mio futuro sarà in panchina: voglio allenare e il corso di tre anni che ho terminato in Argentina mi permetterebbe già di farlo. Di calcio ne capisco, un domani intraprenderò questa strada”.
Riesce a seguire la Serie A?
“Mi piace molto e non è così indietro come si dice, le tre finaliste tra Champions, Europa e Conference League nella scorsa stagione lo confermano. Bisogna, però, alzare il tasso tecnico e per farcela la via è una: acquistare i campioni. Non conosco nel dettaglio la situazione economica del calcio italiano, ma solo i top player aumentano livello e appeal. Mi auguro che possano arrivare, lo dico da tifoso e da persona che ama l’Italia”.
La favorita per lo Scudetto?
“L’Inter è davanti. Mi sarei aspettato qualcosa in più dalla Roma, anche se resto un grande ammiratore di Mourinho, mentre la Juventus non è quella di 4-5 anni fa. Quest’anno Inzaghi ha tutto per vincere il titolo”.
A centrocampo, chi sono i migliori al mondo in questo momento?
“Dipende dalle caratteristiche. Se considerassimo i giocatori ‘box to box’, inevitabile rispondere con Bellingham del Real Madrid. Se, invece, parlassimo del primo uomo davanti alla difesa direi Rodri del Manchester City: attualmente è il numero uno, ha veramente tutto ed è capace di segnare anche gol pesanti. Purtroppo, l’Inter ne sa qualcosa”.
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Dall’alto della sua esperienza, che messaggio vuole mandare alle nuove generazioni? Magari ai bambini che sognano di diventare dei professionisti.
“Purtroppo, il telefono e i social stanno derubando i più giovani di tempo prezioso: questi sono oggetti che possono essere pericolosi, perché distraggono. E se un ragazzo vuole puntare in alto, deve avere disciplina. Vedo spesso dei giovani che hanno ottime qualità, ma poca voglia di sacrificarsi: così non si migliora, così non si diventa un professionista. Nella società attuale manca proprio questo. Ho quattro figli, tre giocano a pallone, e tra gli aspetti che mi rendono maggiormente orgoglioso c’è in loro questo forte desiderio di sudare, lavorare, sacrificarsi. Poi solamente Dio sa dove arriveranno, ma questi valori - e lo dico da padre - sono una soddisfazione enorme”.
Le figure che hanno fatto la differenza nella sua carriera?
“Domanda tosta, o meglio: sono tante, sceglierne qualcuna diventa un’impresa. Parlerei di chi ho conosciuto in Italia: inizio da Prandelli, grande uomo e allenatore. Sempre a Firenze non dimentico la mia amica Silvia dell’ufficio stampa. Poi il grande Mancio, ovviamente. Cito anche Pioli, con il quale lavorai a Milano dopo l’esonero dell’olandese (De Boer, ndr): mi ha ridato una possibilità, facendomi giocare di nuovo titolare con la squadra del mio cuore. E di questo, gli sono ancora grato. Infine, Ferrara: alla Juventus litigammo, ma con onestà ammetto che avrei potuto fare di più. Pure Ciro ha provato a migliorarmi. E lo ringrazio”.
Tornando indietro, c’è qualcosa che non rifarebbe?
“A 40 anni sono più sereno, l’esperienza aiuta. Certo che non rifarei tutto, ma le scelte e i comportamenti sbagliati hanno contribuito a rendermi l’uomo che sono oggi. A livello calcistico, penso forse alla Juve: avrei potuto giocarmi meglio quella chance, ma è andata così. Sono felice di come siano andate le cose e lo sono della mia vita: ogni giorno provo a migliorare come padre, marito, amico e anche come calciatore”.
Guardando avanti, quali sono i sogni che vorrebbe ancora realizzare?
“Circa un mese fa, mio figlio David ha segnato un gol decisivo per la vittoria del campionato con la Fluminense Under-20: lo aspetto in Prima Squadra. Sarebbe incredibile giocare insieme una partita ufficiale al Maracana. Poi vincere il nuovo Mondiale per Club. Sognare non costa nulla, giusto?”.