Lunga intervista di Zlatan Ibrahimovic a The Athletic durante la tournée statunitense del Milan negli Usa. Nell'hotel del New Jersey che ospita i rossoneri (stanotte all'una e trenta l'ultima partita, a Baltimore contro il Barcellona), l'ex bomber ha svariato su molti temi. Sulla sua posizione nella società ha così commentato: "Ho voce in capitolo sotto molti aspetti per portare risultati e aumentare il valore, il tutto con l'ambizione di vincere. Non sono una babysitter, i miei giocatori sono adulti e devono assumersi le responsabilità. Devono dare il 200% anche quando non ci sono". "Un futuro da allenatore? - gli chiedono - Vedi i miei capelli grigi? Figuriamoci dopo una settimana da allenatore. Un tecnico lavora anche 12 ore al giorno. Non hai assolutamente tempo libero. Il mio ruolo è connettere tutto, essere un leader dall’alto e assicurarsi che la struttura e l’organizzazione funzionino. Per tenere tutti sull'attenti" E ancora sul ritorno a Milano: "Quando sono venuto la seconda volta, si trattava più di dare che di prendere. Volevo aprire la strada a una nuova generazione, dimostrandogli come si fanno le cose. Milano è l’élite dell’élite: pressioni, pretese, obblighi. Bisogna assumersi la responsabilità, diventare uomo. Ero il punto di riferimento. Non avevo ego. Ero una specie di angelo custode. Quindi tutta la pressione ricadeva su di me, ma allo stesso tempo facevo pressione su di loro. Credo che questa giovane generazione abbia bisogno di un leader da seguire. Se non hai esempi, soprattutto quando giochi in grandi club, chi ti indicherà la strada?".
Il giornalista gli chiede poi dei tatuaggi. "Credi di potermi capire dalle scritte sul mio corpo? Vabbè, andiamo, spara". Si parte dalla scritta "Solo Dio può giudicarmi". "Non sono credente. Credo nel rispetto. Quindi quelle parole significano che solo io posso giudicarmi. Le faccio un esempio: quando mio fratello è morto di leucemia dov'era Dio per aiutarlo? Lo preghi tutti i giorni, lo ringrazi tutti i giorni, ma dov'era in quei momenti? Nel mio mondo, sei tu il tuo dio. E' quello in cui credo". "Perché ho cambiato così tante squadre? Per mettermi alla prova, uscire sempre dalla mia comfort zone, testare nuove acque". "I miei trofei per ora sono in cantina ma un giorno mi piacerebbe costruire una stanza dove esporli. Se venisse qualcuno a casa mia, e succede raramente - siamo una famiglia molto riservata - non capirebbe che sono stato un calciatore. C'è solo una foto dei miei piedi, per ricordare che tutto quello che ho arriva da lì".
Per mio figlio Maximilian non è facile perché, ovviamente, suo padre è quello che è. Quindi porta un cognome pesante. Ovunque vada, sarà sempre paragonato a me. Ma al Milan, nel mio ruolo, non lo vedo diverso dagli altri. Non lo giudico come se fosse mio figlio. Lo giudico come giocatore, come tutti gli altri. Deve imparare, deve lavorare e deve guadagnare. È forte mentalmente. Deve acquisire quella spinta che avevo io in modi diversi. Dove la prenderà, dovete chiederlo a lui. Posso parlare solo come un padre. Gli ho dato disciplina, rispetto e il duro lavoro. Se vuoi qualcosa, lavori per ottenerla. Non ti daranno nulla gratuitamente qui. E non solo nello sport". "Alla Juventus avevo Fabio Capello. Mi stava distruggendo. Ma allo stesso tempo mi costruiva. Come? Facile. Ti diceva 'Oggi sei stato uno schifo. Domani sarai il migliore'. Quindi, quando pensavi di essere il migliore, ti massacrava. A un certo punto non ci capivo più nulla. Mi chiedevo: 'Sono davvero il migliore o sono una m...?' Era il suo modo di motivarti. Ha funzionato? Sono diventato il migliore. Quindi sì. Quando arrivai in Inghilterra avevo 35 anni. La gente diceva che ero troppo vecchio, che dovevo ritirarmi. Ma questo mi motivava. Mourinho era una macchina. Lui tira fuori il meglio da te, è un manipolatore, sa come entrarti nella testa. Mi ha ricordato Capello. Ma una versione più recente. Disciplina. Duro. Intenso. Come piace a me".
Fonte: Gazzetta.it