La notte dell’11 luglio 2021 uscimmo da Wembley molto tardi, dopo aver scritto tutti i pezzi trionfali sulla finale dell’Europeo appena vinta. Camminavamo su cocci di vetro e schifezze varie perché all’ingresso gli inglesi, già ubriachi, avevano lanciato in aria bottigliette di birra per farle ricadere a terra, specie quando transitavano gruppi di italiani. Ma quell’asfalto lurido era un tappeto rosso e noi ci camminavamo sopra col petto in fuori, campioni d’Europa, in un silenzio da favola, perché gli inglesi, scornati, si erano rintanati nelle loro casette. Erano sicuri di interrompere il digiuno atavico che dura dal 1966, specie dopo il vantaggio di Shaw, invece Bonucci si è sciacquato la bocca, Chiellini ha preso per il coppino l’intera Inghilterra e Donnarumma aveva strozzato l’ultimo rigore. Abbiamo ripensato a quelle emozioni l’altra sera, quando, finito di scrivere i mesti pezzi su Italia-Svizzera, lasciavamo l’Olympiastadion di Berlino che ci aveva resi felici nel 2006. Non c’era silenzio. Festeggiavano i tedeschi che avevano appena sconfitto la Danimarca e naturalmente gli svizzeri che un tempo non ci battevano mai. Ora ci hanno presi a pallate e umiliati. Noi, i campioni d’Europa.
Cos’è successo da Londra a Berlino in questi 1087 giorni? Perché la carrozza si è trasformata in una zucca? È precipitato tutto molto presto. Già alla prima uscita da regnanti (Firenze, 2-9-21), debutto nelle qualificazioni mondiali, un rumorino sinistro: Italia-Bulgaria 1-1. Primo tempo spettacolare che poteva finire in goleada, poi un calo anomalo per una Nazionale che Roberto Mancini aveva educato all’attacco a oltranza, anche in vantaggio. Ma la successiva festa con la Lituania (5-0), che coincideva con il nuovo record mondiale (37° risultato utile) convinse tutti che Firenze era stato soltanto un raffreddore. Invece i due pareggi con la Svizzera e quello con l’Irlanda del Nord, che complicarono tremendamente il nostro cammino verso il Qatar, dimostrarono che si trattava di qualcosa di più. Una sola rete in 3 partite: persa la via che portava al gol.
L’Italia spuntata di Belfast era straordinariamente simile a quella appena cacciata dalla Germania. Un piano inclinato che ha portato all’Apocalisse di Palermo: Italia-Macedonia 0-1 nella semifinale di spareggio per l’accesso al Qatar. Sfortuna nera, certo, 32 tiri a 4, 16 corner a 0, ma il trauma del secondo Mondiale saltato di fila, sfumato contro un avversario tanto modesto, è stato poderoso. Non medicarlo con delle dimissioni di gruppo, come nel caso precedente, è stata un’acrobazia ardita, probabilmente sbagliata. Ma il Mancio aveva raccolto l’Italia tra le macerie della prima Apocalisse e l’aveva portata in cima all’Europa incantando tutti con un gioco rivoluzionario rispetto alla tradizione italiana, fatto di bellezza e dominio. Quel miracolo fu lo straccio che assorbì l’imbarazzante macchia macedone. Quando diciamo "sbagliato", non è per dire che Mancini avrebbe meritato l’esonero, ma perché non era più il vero Mancini.
La Macedonia gli aveva spezzato qualcosa dentro. Un anno dopo il trionfo, tornò a Wembley per perdere nettamente la Finalissima con l’Argentina: 3-0. Guidava i soliti vecchi eroi. Aveva tardato troppo il ricambio, lui che anche da numero 10 anticipava tutti con le visioni. Qualche colpo di tacco (Gnonto, Retegui), ma aveva perso il tocco magico e il fuoco negli occhi. Sconfitto severamente in Germania (5-2), a Napoli dall’Inghilterra (2-1) e dalla Spagna (2-1) nelle finali di Nations League (2-1). Il controspionaggio federale avrebbe dovuto intercettare prima questa stanchezza e anticipare le rovinose dimissioni di Ferragosto. La scelta del migliore su piazza (Spalletti) è stata tempestiva e prestigiosa da spendere, ma non c’è stato il tempo per considerare quanto un ottimo allenatore possa essere un buon ct. Arrigo Sacchi, che ha la stessa mistica del lavoro quotidiano, arrivò in finale a Usa ‘94, ma aveva Baggio e l’aiuto del suo blocco Milan.
Ieri l’ex aiutante di Spalletti, Calzona, senza troppa dialettica, ma con più esperienza nel ruolo (22 panchine) stava per compiere l’impresa di eliminare l’Inghilterra con una Slovacchia umile, ma appassionata e organizzata come non è stata l’Italia. Ieri Spalletti spiegava che deve ancora imparare fino in fondo il mestiere di ct. Ma non c’è tempo. Deve qualificare l’Italia che non può perdere il terzo Mondiale di fila. Senza avere Bellingham e Kane. E senza lo straccio del Mancio da passare. È dura.
Fonte: gazzetta.it