In Europa c'è un pregiudizio, "uno stigma nei confronti dei giocatori americani", che "mi fa arrabbiare": "l'ho visto con i miei occhi" che influenza le decisioni degli allenatori. L'attaccante del Milan (al momento fermo per infortunio) e della nazionale statunitense Christian Pulisic, americano di Hershey in Pennsylvania, si sfoga come mai prima, tra il colloquio con The Athletic e la ragione dell'intervista: presentare la docuserie su di lui - intitolata Pulisic - prodotta da Cbs Sports e trasmessa in streaming su Paramount+, il cui primo episodio è uscito questa settimana, mentre secondo e terzo sono annunciati per gennaio e altri sono stati promessi più avanti nel 2025. La maglia di Pulisic costituisce il 15 per cento delle vendite a livello globale tra quelle del Milan, che ha visto raddoppiare il numero di utenti statunitensi della propria app dopo il suo arrivo, che al momento della firma registrò 52 milioni di impressions. Parlando della sua esperienza in rossonero, Pulisic è riluttante a definire questa come la sua migliore stagione: "In ogni area, sto migliorando un po', che si tratti di concludere, crossare, difendere, crescere tatticamente e capire meglio il gioco. Sento che sto migliorando e diventando molto più forte mentalmente, sapendo che quando i momenti più duri colpiscono, sono in grado di non lasciare che mi influenzino così tanto, rendendo i momenti di meno sicurezza un po' più brevi. Quindi si tratta semplicemente di coerenza e di prendersi cura di sé".
Nella docuserie compaiono ospiti d'eccezione, dall'ex compagno rossonero Olivier Giroud ("è tranquillo, ha così tante cose che tiene dentro di sé che non vuole mostrare") a quello in nazionale Weston McKennie ("il suo viaggio vale la pena di essere documentato, non lascia entrare così tanto le persone nella sua vita"), da Jurgen Klopp suo ex allenatore a Dortmund fino a Zlatan Ibrahimovic, che in veste di dirigente del Milan racconta che l'unica cosa che vede "un po' negativa" in Pulisic è che è "un po' silenzioso": "È noto per essere Capitan America, ma non gli piace essere Capitan America. Forse non si vede come un supereroe. Sta giocando con un basso profilo e con i piedi per terra. Ma tu sei Capitan America, non me ne frega un c***o di quello che dici, lo sei. Se questo ti mette più pressione, non mi interessa. È colpa sua: se non fossi così bravo, non ti chiederemmo niente".
"Spero che le persone possano vedere che c'è qualcosa di più su di me", dice Pulisic per raccontare la ragione centrale di questa docuserie, la cui uscita adesso non è casuale, per raccontarlo "mentre si prepara per il momento più importante della sua carriera: la Coppa del Mondo 2026 in patria": "Uno dei miei obiettivi più grandi è ispirare la prossima generazione di calciatori e il mio paese, e far entusiasmare le persone. Penso a questo momento in cui il Mondiale sta arrivando negli Stati Uniti e il nostro sport è al suo massimo, mi sembrava il momento giusto. Mi piacerebbe poter dire di aver avuto una piccola o grande parte nel portare il calcio in America a un livello completamente diverso e, si spera, portarci a un punto in cui siamo uno dei paesi più rispettati al mondo". E a livello personale: "Alcuni di noi sono più introversi, altri sono più estroversi. Spero che alcune persone possano vedere questo documentario e pensare, 'Mi identifico con lui'. Spero che vedano come sono come persona e si rendano conto, 'ok, forse non tutte le star del calcio vogliono essere così glamour e sotto i riflettori tutto il tempo'. Spero che vedano che sono un po' l'opposto e vedano alcune delle difficoltà che affronto quotidianamente come americano che combatte in Europa per cercare di essere uno dei migliori giocatori al mondo".
Ma dichiaratamente tra le motivazioni che lo hanno spinto a fare questa docuserie c'è stata quella di migliorare la percezione dei calciatori statunitensi in Europa. È il padre Mark, ex giocatore che ha avuto grande influenza sulla crescita di Christian, a parlare di "stigma" nei confronti dei giocatori americani. "Chip on our shoulder", il chiodo fisso di avere qualcosa da dimostrare, lo chiama il compagno di nazionale Weston McKennie. Dice Pulisic a The Athletic: "Mi ispira a lavorare ancora di più e a dover migliorare, provare a non mettere nemmeno gli allenatori nella condizione di avere una decisione da prendere, ma dire di me: 'Questo è il ragazzo che vogliamo che giochi'. Penso che ora la situazione sia migliorata, anche grazie a me, così che le persone possano dire: 'Questo ragazzo è americano e lo sta facendo al massimo livello, quindi dobbiamo rispettare questi ragazzi'. Guarda quanti americani negli ultimi cinque o dieci anni sono venuti in Europa. Abbiamo giocatori nella Champions League e in alcuni dei campionati più importanti del mondo. Dimostrare che si sbagliano non è la nostra più grande motivazione, ma c'è". Nell'occasione Pulisic ha parlato anche della Trump Dance con cui ha esultato dopo un gol contro la Giamaica, finendo su tutti i media per aver imitato a pochi giorni dalle elezioni il balletto del nuovo eletto presidente degli Stati Uniti. Già dopo la partita disse che lo aveva fatto solo perché lo considerava "divertente" e "buffo". E ora aggiunge: "Sinceramente non mi sento diverso ora rispetto a quando l'ho fatto. Per me, era una tendenza di ballo virale, quello che ho fatto più volte nella mia carriera. Non era un'affermazione in alcun modo. Chiunque ci veda qualcos'altro non dovrebbe farlo semplicemente perché non c'è altro". Ma non lo hanno sorpreso le reazioni: "Visto il clima politico, specialmente negli Stati Uniti, forse no. Sarò onesto, prima non ci avevo pensato nemmeno io. Ma ora che ci penso, non mi sorprende così tanto visto il modo in cui le persone reagiscono alle cose". Reazioni dalla federcalcio americana? "Sinceramente, no, nessuna reazione. Penso che mi conoscano come persona. È così che dovremmo giudicare le persone".
Fonte: Gazzetta.it