Com’è possibile partire da un bullone, uno spinterogeno, una guarnizione e arrivare ad avere, caso unico nello sport americano, quattro squadre professionistiche che giocano a poche decine di metri l’una dall’altra, in una città come Detroit che nel giro di pochi anni è passata da emblema di degrado a località visitata nell’arco delle quattro statgioni da 19 milioni di turisti?
Facile: con una catena di montaggio. Nella realtà, e ancor più nella metafora, se si parla appunto di Detroit, la città che dal 1934 ospita la prima partita NFL del Giorno del Ringraziamento, tradizione interrotta solo durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il concetto di catena di montaggio
Una tradizione che collega industria automobilistica, disagi razziali, migrazioni interne, la musica, Magic Johnson e i Bad Boys, i Pistons due volte campioni NBA.
Partendo dal grande sviluppo industriale di tante città del Midwest nella seconda parte dell’Ottocento. Molte erano sui grandi laghi o su fondamentali vie d’acqua, come Cleveland, Chicago, Pittsburgh e appunto Detroit, sul Detroit River, corridoio fondamentale per merci e uomini, col Canada dal lato opposto, infiltratosi con un gioco geografico a sud del Michigan.
Ai primi del Novecento viene messo a punto il concetto di catena di montaggio, a imitazione dei macelli di Chicago ma anche di procedure adottate all’Arsenale di Venezia secoli prima, con l’acqua al posto del nastro trasportatore: l’operaio non deve più spostarsi, ma restare fermo, e sono le componenti del prodotto (automobile) che gli passano davanti. Henry Ford, fondatore dell’omonima fabbrica, e i suoi colleghi vedevano questa soluzione come benevola e portatrice di vantaggi per tutti: meno fatica fisica, maggiore produttività e compensi più alti, perché più alti furono davvero.
Più forza lavoro
Serviva però forza lavoro e la forza lavoro arrivò soprattutto dal sud degli Stati Uniti: a due ondate, la seconda negli anni 40, quando le fabbriche furono riconvertite in parte per lo sforzo bellico e un decreto presidenziale abolì la discriminazione razziale nell’industria delle armi, discriminazione che evidentemente fino a quel momento vigeva. Dal sud arrivarono in prevalenza bianchi, ma in altissimo numero anche afroamericani, e tra le centinaia di migliaia che arrivarono in queste ondate, chiamate proprio grandi migrazioni, c’erano anche personaggi sconosciuti come Earvin Johnson, Lois Hearns, Berry Gordy primo, Joe Louis Barrow, Walker Smith. Sconosciuti loro, ma non i loro figli.
La paga nel settore auto era buona, ma le condizioni degli afroamericani spesso non erano molto diverse da quelle che avevano lasciato alle spalle, e in quegli anni nel sud la segregazione razziale era ancora legale, c’era il razzismo vero, quello cattivo, un’offesa a Dio e agli uomini. Non per nulla il loro arrivo riattivò il Ku Klux Klan, che di solito associamo proprio al sud, ma che era invece presente anche al nord, con obiettivo cattolici, ebrei e afroamericani.
Presto, questi ultimi si ritrovarono a vivere in catapecchie, in edifici di pessima qualità e senza molte possibilità di avanzamento sociale perché venivano sistematicamente esclusi dal credito tramite una pratica chiamata Redlining, spiegata anche dallo scrittore Edward McClelland nel suo Nothin’ but blue skies, che permetteva a banche e finanziarie di rifiutare prestiti e mutui a chi provenisse da zone delimitate, su mappe apposite, proprio da una linea rossa. Si calcola che solo il 2% delle richieste di denaro sia stato approvato, in un lungo arco di tempo a coprire i primi anni Sessanta.
Le condizioni mediocri non restarono senza una voce: prendiamo ad esempio Bobby Bare, cantante country, autore nel 1963 di Detroit City, una ballata triste che raccontava la nostalgia del sud, la falsa impressione dei parenti che chi era andato a Detroit avesse fatto fortuna, la solitudine. Sentimenti diffusi, che accrescevano il disagio.
La nascita dei Lions
Nel frattempo, però, erano arrivati ed emersi i Lions: nati altrove, portati in città nel 1934 da George Richards, imprenditore della radio, che pur nel mezzo della Grande Depressione aveva compreso il potenziale di pubbico di Detroit. Lions come omaggio ai Tigers, la grande squadra di baseball, e perché Richards li voleva re non della giungla, ma della NFL.
I tifosi però non risposero subito: all’epoca il baseball dominava e con esso il football universitario, rappresentato a poca distanza da Michigan e Michigan State, mentre quello professionistico era poco pubblicizzato e poco vissuto. Richards allora si inventò una partita nel giorno del ringraziamento, convincendo la rete radiofonica più diffusa dell’epoca, la NBC, a trasmetterne la cronaca in tutto il paese, per un totale di oltre 90 stazioni locali.
Fu la nascita di una grande tradizione, arricchita nel corso del tempo da altre: se arrivate a Detroit la mattina all’alba potete seguire una mini-maratona corsa da personaggi vestiti da tacchini o pannocchie, ma verso l’ora di pranzo il centro si fa deserto e l’atmosfera è quella del nostro Natale, con suoni soffusi e silenzio ad arricchire il tutto. Tranne che nel Ford Field, in pieno centro, dove si gioca la partita.
Il White Flight e il degrado di Detroit
Ma per arrivare al Ford Field bisogna tornare indietro, ai disagi che affrontarono in quegli anni le famiglie venute dal sud. Risvolti complicati, ma è sufficiente ricordare che ci furono due grandi rivolte, nel 1943 e nel 1967, con decine di morti, nonostante un netto miglioramento delle condizioni sotto il presidente Lyndon Johnson, successore di John Kennedy dal novembre del 1963.
Nel frattempo, un fenomeno comune a tante altre città industriali con composizione etnica modificata rispetto alle origini: per sfuggire a condizioni urbane sempre meno agiate, moltissimi esponenti della classe media diedero origine al cosiddetto White flight, la fuga dei bianchi (in maggioranza lo erano) verso l’esterno, favorita anche dalla presenza delle autostrade, che prima non c’erano.
E chi li inseguì verso le cittadine del circondario, dove c’era spazio per le casette con giardino che guardacaso non vedete mai in film anteriori agli anni 50, ambientati quasi tutti nell’America urbana e trafficata? Uffici, banche, centri commerciali, società di servizi e dopo un po’ anche i club sportivi: nel 1975 i Lions si trasferirono al Silverdome di Pontiac, 32 km a nordovest della città, e nel 1978 li raggiunsero i Pistons, che poi nel 1988 andarono ad Auburn Hills, ancora più lontano dalla città.
Restarono in centro i gloriosi Red Wings di hockey, prima allo storico Olympia poi alla Joe Louis Arena, e i Tigers, che resistevano nel loro antico, meraviglioso Tiger Stadium, situato un pizzico fuori dal centro stesso. Chi andava a vederli provava, per così dire, il brivido dell’avventura: arrivava, parcheggiava in spiazzi sorvegliati, entrava e alla fine scappava più lontano possibile, senza contribuire troppo alle sorti economiche dei pochi locali di un certo livello rimasti.
Perché per i motivi di cui sopra Detroit divenne, letteralmente, un deserto urbano, una delle capitali americane del disagio, del degrado e della violenza: non è un caso che il celebre film Robocop, del 1987, sia ambientato proprio in una Motor City completamente sfuggita al controllo della legge.
È il disagio cantato dal rapper Eminem, urlato su toni diversi da Kid Rock, il disagio raccontato in maniera elegante, già da decenni, dalla schiera di artisti dell’etichetta Motown, che avevano elaborato in chiave nordica i suoni e i sapori musicali del sud, il lamento e la gloria, il sogno e l’utopia. Perché non bisogna dimenticare che già all’epoca della schiavitù Detroit era stata tappa importante della cosiddetta Undeground Railroad, che nonostante il nome non era una ferrovia né era sotto terra: era semplicemente il nome dato al sistema di aiuti, appoggi, sotterfugi che permise a migliaia di schiavi di fuggire verso nord, magari anche verso il Canada, via Detroit.
Da sconosciuti a leggende
E qui si torna agli sconosciuti arrivati dal sud e menzionati prima: Gordy Berry primo aveva messo al mondo Gorry Berdy secondo, che di Motown era stato l’artefice massimo, e che ebbe tra i suoi anche il grande Marvin Gaye, il cantante di Washington ucciso nel 1983 dal padre durante un litigio: nel 1970 Gaye avrebbe voluto provare a giocare nei Lions, ma il club si tirò indietro, temendo che infortuni pregiudicassero la sua carriera canora.
Se non era la musica, era lo sport a illuminare i figli della prima ondata: il figlio di Earvin Johnson, operaio specializzato alla General Motors, divenne Earvin Johnson JR, ovvero Magic Johnson, che senza le ruvide opportunità offerte da Detroit e dai suoi dintorni, come la sua East Lansing, forse non sarebbe diventato una superstar. Lois Hearns, mamma energica come tante signore del sud abituate a crescere una famiglia numerosa, invece facilitò la vocazione pugilistica del figlio Thomas, diventato uno dei più grandi boxeur della seconda parte del Novecento.
Hearns si allenava in una palestra dove mosse i primi passi adulti un grande del basket, Spencer Haywood, nato nel Mississippi, dove aveva conosciuto il razzismo in tutte le sue forme, condizionandosi all’obbedienza al punto che a Detroit, pur alto ormai oltre 2 metri, non osava guardare in faccia il suo primo coach, bianco, che lo scrollò dicendogli più o meno «Spencer, alza lo sguardo: io sono un essere umano come te». Lo Spencer Haywood poi campione olimpico a Città del Messico e, al ritorno a Detroit, osteggiato da parte della comunità afroamericana perché - dicevano - aveva contribuito senza fare storie al successo di una squadra prevalentemente bianca mentre sul podio dei 200 metri Tommy Smith e John Carlos manifestavano la loro protesta a pugno chiuso, diventata una delle immagini simbolo del Ventesimo Secolo.
Altri della prima ondata? Joe Louis Barrow divenne solo Joe Louis, peso massimo di eccezionale portata storica: era nato in Alabama, figlio di ex schiavi, e fu il primo afroamericano a diventare famoso negli Stati Uniti, mentre Walker Smith mise al mondo un altro pugile indimenticabile chiamato Sugar Ray Robinson, nome d’arte.
Storia sportiva e voglia di riscatto
Che accadde, allora, cosa c’entra tutto questo con il Giorno del Ringraziamento e il Ford Field e le squadre in pieno centro?
C’entra: perché propri negli anni in cui Detroit addirittura volava verso la bancarotta (2013), un villino nei pressi dell’aeroporto potevi portartelo via con mille euro e chi poteva permetterselo pareva non volersi più staccare dalle cittadine del circondario, la storia sportiva della città e la voglia di un riscatto facevano tornare i club prima fuggiti: nel 2000 apriva il Comerica Park, magnifico stadio di baseball, e nel 2002, dall’altro lato della strada, toccava appunto al Ford Field. Con seguito di alcuni locali, ma ancora pochi: al Super Bowl del 2006 era facile vedere, attorno ai due stadi, palazzi su palazzi con finestre e porte chiuse da assi inchiodate, e un degrado ancora preoccupante, confermato dalla costante, ossessiva presenza di forze di Polizia.
Dal 2010 però aiuti governativi e iniziativa privata hanno ridato spinta e portato alla costruzione nel 2017 del Little Caesars Place, non lontano dal Comerica Park e dal Ford Field. Iniziativa privata vuol dire Dan Gilbert, che è sì proprietario dei Cleveland Cavs, ma è cresciuto a Detroit e in quel 2010 ha spostato la sede delle sue aziende in centro ponendosi a capo del comitato cittadino dedito al miglioramento del decoro urbano e all’abbattimento dei tanti edifici abbandonati, quelle rovine al contrario come le definì l’artista Robert Smithson, evocato dall’architetto Pietro Valle in un suo eccellente saggio.
Ora, come si diceva, Detroit è l’unica città nordamericana ad avere le squadre dei quattro grandi sport in centro, e la strada che è stata fatta in questi cento anni, dalla grande migrazione alla fuga in provincia al ritorno, è quasi difficile da credere per chi fino a 15 anni fa si guardava alle spalle uscendo dal Ford Field, o dal Comerica Park, dopo il tramonto.
Capita ora che in centro a Detroit un ristorante dimentichi fuori le sedie, e le ritrovi al loro posto al mattino; capita che i Pistons vincano un titolo, come accadde nel 2004, e il Washington Post titoli ‘a Detroit hanno vinto un campionato e non ci sono stati disordini’, capita però anche che la rivitalizzazione della zona urbana e l’adattamento di vecchi edifici a condomini di livello medio alto porti di nuovo ad una dorta di discriminazione: i meno abbienti, perlopiù afroamericani, che avevano resistito in quella zona ora non possono più permettersi affitti e negozi di caratura maggiore e sono costretti a muoversi non verso le cittadine dei dintorni, ma verso le periferie mal collegate con il centro e con i potenziali luoghi di lavoro.
È accaduto anche in altre città americane, e prima poi anche questo avrà conseguenze.