A New York questa è la settimana della moda. A fare tendenza in città, però, è un ragazzo italiano di 23 anni che veste prevalentemente sportivo per esigenze professionali e che sa essere elegante a modo suo in ogni circostanza. Il giorno dopo il trionfo agli Us Open, Jannik Sinner viene sballottolato di qua e di là: impegni con gli sponsor, con le tv, con il mondo intero. La pace, quella vera, se l’è goduta per qualche ora, domenica sera al rientro a Manhattan: “Sa qual è la prima cosa che faccio dopo una vittoria come questa? Mangio un hamburger e le patatine insieme a Simone Vagnozzi e Darren Cahill. Ci sediamo, ci godiamo il momento. Poi facciamo anche altre cose per festeggiare, ma quello è il mio attimo preferito di relax. Non ho dormito tanto la notte dopo la finale, adesso però l’adrenalina è calata”. Jannik, ripartiamo da domenica. Cosa ha provato? “Mi sono sentito onorato di far parte di un evento così importante. Già nel riscaldamento avevo buone sensazioni, ma poi non sai cosa può succedere in campo. Invece appena è iniziata la partita avevo un ottimo equilibrio. Ero contento di giocare. Avevo tante aspettative su di me e vincere è stato molto bello”.
Qual è il complimento più bello che ha ricevuto? “Scelgo un pensiero di Darren prima della finale. Mi ha chiesto se sapessi quali erano le due persone più orgogliose di me. Gli ho risposto di no. ‘I tuoi genitori’, ha detto lui. Darren è padre, sa cosa ho passato negli ultimi mesi e quelle parole mi hanno messo i brividi”. Quanto è stato difficile affrontare le difficoltà legate alla vicenda doping? “Tanto. Però, se sei preparato, le difficoltà ti fanno crescere. Ho passato momenti duri, non solo prima del torneo ma nei mesi precedenti. Mi sono stretto alle persone che mi vogliono bene. Quando entravo in campo non era come prima, chi mi conosce si accorgeva che qualcosa non andava. Per tanto tempo ho vissuto notti agitate, spesso non ho dormito e quando è venuta fuori la vicenda è stato più semplice capire come mai fossi stato spesso male. Durante gli Us Open, però, ho ricominciato a essere me stesso. E questo è più importante del risultato. Anche io sono nervoso a volte e in quei casi mi piacerebbe essere più calmo. Però mi sono sempre attaccato al lavoro. I problemi non sono spariti dalla mia mente, ma ci penso meno”.
Come gestisce l’equilibrio tra la gioia per il successo e la determinazione a migliorare ogni giorno? “Vivendo ogni cosa con lo spirito giusto. Se non ti godi il momento quando vinci, è tutto inutile. Si lavora per un obiettivo e quando viene centrato si festeggia. Non c’è una regola, puoi fermarti tre, quattro o cinque giorni. Valuto insieme al team: stavolta, ad esempio, ho bisogno di staccare un po’ di più. Ma poi sarò felice di ricominciare ad allenarmi”. Lo sente l’amore della gente? “Certo. Sono onorato da questa attenzione. E mi fa sentire più tranquillo. Purtroppo in Italia gioco poco perché ci sono solo tre eventi: Roma, Torino e la Davis. Ma io sento il calore di chi guarda da casa, l’Italia mi ha spinto durante gli Us Open. Sento sempre l’affetto degli italiani a prescindere dal luogo e dall’ora in cui gioco. E anche il pubblico sul campo è stato splendido: non sapevo come avrebbe reagito a tutta la vicenda, l’ha fatto nel modo più bello”. Si rende conto di quello che sta facendo? “Sì. Faccio tanti sacrifici per essere in questa posizione. E quindi sono il primo a essere contento quando raggiungo certi obiettivi. Mi fa strano essere considerato un esempio per altri giocatori: in fondo ho solo 23 anni”.
Qual è stato il momento più difficile del torneo e quello in cui ha pensato: “Ok, adesso ci sono”? “È difficile prendere un solo momento. Il torneo non è iniziato bene, avevo tanti dubbi, nella testa c’erano molti pensieri. Dal terzo turno con O’Connell mi sono sentito meglio. Con Paul ero sotto 4-1 e doppio break, ma ho trovato il ritmo giusto. La vittoria con Medvedev mi ha dato un’altra spinta perché ho avuto buone sensazioni. Poi in semifinale e finale di Slam ti senti sempre in modo diverso, c’è più attenzione, ci metti più energia. Capisci il momento e lo vivi”. Qual è la cosa più bella che riporta in Italia da New York? “Il percorso. Da dove sono partito e dove sono arrivato. Dai dubbi iniziali fino alla vittoria”. Crede nel destino? “Un po’. Io penso che a una brava persona prima o poi succede qualcosa di bello. Quando giro in macchina nelle grandi città come New York ragiono su certe cose e mi chiedo come sia la vita degli uomini e delle donne che incontro. Cerco di immaginare cosa fanno”.
La dedica a sua zia l’aveva preparata? “No, non penso mai prima ai discorsi che eventualmente potrei fare. In quelle cose sono molto istintivo. La dedica è stata spontanea perché, finita la partita, ho realizzato tutto insieme cosa stavo passando. Mia zia è importante, con lei ho trascorso tanto tempo d’estate quando ero piccolo. Mi portava lei alle gare di sci quando i miei genitori erano impegnati per lavoro. Viaggiando tanto, purtroppo passo poco tempo con le persone a cui tengo. E mi dispiace”. Nel 2024 due Slam ad Alcaraz, due Slam a Sinner. Finita l’epopea dei big three, quale era sta nascendo? “Dobbiamo aspettare. Una stagione è troppo poco. Roger si è ritirato, Rafa vediamo come sta, Nole ha vinto quello che gli mancava e avrà fiducia nel futuro. Io penso soprattutto a me stesso. So che Carlos e gli altri campioni mi renderanno un giocatore migliore perché mi batteranno spingendomi a lavorare di più. È bello comunque vedere che ci sono nuove rivalità e sono contento di far parte di questo potenziale... chissà cosa... (e ride, ndr)”.
Finora il suo bilancio stagionale è di 55 vittorie e 5 sconfitte. Fa abbastanza impressione. “Sembra tutto facile e normale, ma non lo è. E io, a parte i successi particolarmente importanti come la finale di New York, ricordo di più le partite perse perché da quelle si riparte e si migliora. Il tennis è fatto così: magari domani rigioco con Fritz, lui serve sempre come nel secondo e nel terzo set, io abbasso un po’ il rendimento e perdo. Non siamo macchine. Ecco perché è importante allenarsi bene e gestire ogni cosa dentro e fuori dal campo. Io non posso permettermi di cambiare perché non voglio perdere la mia identità. Ho fatto tanti sacrifici per arrivare a questo punto”. È più sorprendente vincere due Slam in un anno o essere numero uno del mondo con un vantaggio così largo? “Vincere due Slam. E sono stati due Slam diversi. In Australia sapevo di poter giocare un buon tennis, ma ero più libero mentalmente. Qui sono arrivato da numero uno, avvertivo la pressione e poi alle spalle c’erano mesi di pensieri brutti. Ripensandoci adesso, vincere il titolo a Cincinnati mi ha aiutato a riprendere confidenza e ripartire. A Melbourne vincere fu un sollievo perché lavori per vincere uno Slam ma non sai se ci riuscirai davvero. A New York ho gestito bene ogni situazione e ho alzato il livello durante il torneo. Nel corso della stagione il mio team mi ha spinto a provare cose nuove e anche a evolvere tatticamente. Ho passato anche molto tempo in palestra e so che fisicamente devo migliorare tantissimo. Non sono perfetto e non lo sarò mai, ma alla fine della carriera potrò dire di aver fatto tutto il possibile per essere al 100%. E comunque la stagione non è finita: le Finals sono un grande obiettivo”.
Nel 2019, appena entrato nella top 100, disse che sognava di vincere il suo primo Slam a New York. È stato il secondo. Pensa mai a tutti i sogni che sta realizzando? “Quell’anno agli Us Open persi al primo turno sull’Armstrong contro Wawrinka in quattro set. Poi a Vienna battei Kohlschreiber entrando nella top 100 e, tornato negli spogliatoi, mi sedetti e pensai: ‘Molto bello’. È passato tutto velocemente, ma sono ancora giovane e penso soprattutto ad andare avanti un passo alla volta. A 23 anni si possono aggiungere tante cose, non si può aver già ottimizzato tutto. L’abbiamo visto anche nella finale con Fritz. Potevo giocare meglio? Sì. Potevo servire meglio? Decisamente sì. Però bisogna anche analizzare tutto il contesto e allora penso che con il mio team siamo stati bravi a gestire la situazione non dico in modo perfetto ma quasi: non avremmo potuto fare molto di più”. Andrà a salutare i compagni in Davis a Bologna? “Avevo già pensato a questa cosa. Penso di andare a Bologna domenica se la terza giornata sarà decisiva. Tengo molto alla squadra. Non gioco perché non avrebbe avuto senso farlo in questo modo. Se arrivi all’ultimo momento, non sei al 100% e allora i valori si livellano e si può perdere. Abbiamo un’ottima squadra e sono molto vicino ai ragazzi”.
Fonte: Gazzetta.it