La Cerimonia d’apertura di Tokyo 2020 ha risentito della pandemia e dell’anno di ritardo che il Covid 19 ha imposto al mondo. È stata molto nipponica e non poteva essere altrimenti: precisa, delicata e minimalista, con un’espressività semplice, intensa e diretta. Come una poesia haiku. Come una pittura yamato-e. Fra ideogrammi, due migliaia di droni e ologrammi; pensieri nascosti, perché la parola "celebrazione" è stata bandita dal CEO, e fiori di ciliegio.
Ci ricorderemo di...
La ricorderemo per gli studenti delle prefetture di Iwate, Miyagi e Fukushima - colpite dal terremoto, dallo tsunami e dal conseguente disastro nucleare del 2011 - che ricevono la fiaccola olimpica finalmente giunta allo stadio olimpico di Tokyo.
La ricorderemo per i pittogrammi animati del duo di mimi Masa e Hitoshi, che ha riprodotto dal vivo quella che fu l’innovazione dei Giochi di Tokyo 1964, ovvero le figure stilizzate come mezzo per superare le barriere linguistiche.
La ricorderemo grazie a Shigeo Nagashima, sostenuto nel suo incedere con la torcia da Sadaharu Oh e Hideki Matsui, ex New York Yankees, sulle note del Boléro di Ravel. Sono leggende senza tempo del baseball giapponese e Nagashima, ottantacinquenne, è stato colto di recente da paralisi per un infarto. Ancora troppo poco per rinunciare alla fiamma olimpica.
La ricorderemo per queste parole di Thomas Bach presidente del CEO: «Oggi è un momento di speranza. Facciamo tesoro di questo momento, perché finalmente siamo qui, tutti insieme. Questo è il potere unificante dello sport» . E ovviamente per la parata delle nazioni con i suoi atleti e portabandiera, accompagnati dalle musiche dei videogame giapponesi.
HAFU, ovvero W la diversità
Il Giappone ospitante aveva suggerito un “tema”: HAFU, ovvero «metà e metà» per un'idea di multiculturalismo che la monocromatica società nipponica ancora nasconde. Per esempio, solo il 4% dei cittadini di Tokyo è nato in un altro stato. Per esempio, l’ultima tedofora è stata Naomi Osaka di papà haitiano e vita americana, che prima di accendere la torcia olimpica ha visto sfilare Rui Hachimura, cestista Nba, padre del Benin.
Diversità e inclusione: un messaggio ricevuto dalla Francia, che ha consegnato la sua bandiera alla judoka Clarisse Agbegnenou - figlia di uno scienziato togano, nata prematura e in coma per malformazione renale - e al lottatore Samir Ait Said, nativo kabyle algerino.
Messaggio ricevuto dagli Stati Uniti d’America con le stelle e strisce fra le mani della cestista Sue Bird, militante bianca del Black Lives Matter, ed Eddy Alvarez “addirittura” figlio d’immigrati cubani.
Ricevuto dalla Siria di Hend Zaza che ha 12 anni (la più giovane di Tokyo 2020) e s’è allenata a tennis tavolo tra un black-out elettrico e un coprifuoco… di guerra.
Ricevuto dall’Australia, che ha scelto il cestista Patty Mills primo aborigeno di sempre e la nuotatrice Cate Campbell, nata in Malawi da genitori sudafricani.
Ricevuto dalla Gran Bretagna, che si è fatta rappresentare dalla velista gallese Hannah Mills e dal canottiere Moe Sbihi primo musulmano .
L'Italia
E l’italiana Paola Egonu? Lei, veneta di genitori nigeriani, ha portato la bandiera a Cinque Cerchi rappresentando l’Europa, perché quella italiana ce l’avevano la tiratrice Jessica Rossi e il pistard Elia Viviani, scelti per aver vinto una medaglia d’oro lei a Londra 2012, lui a Rio 2016.
Pita, un mito inclusivo
Poi c'è il taekwondoka tongano Pita Taufatofua, che per la terza volta in parata olimpica da Rio 2016 si presenta a petto nudo, cosparso d’olio in gonnellino taovala, con in mano la bandiera di Tonga. Ai Giochi Olimpici di PyeongChang 2018 aveva fatto lo stesso, ma sottozero, da sci fondista: «Rappresento migliaia di anni di cultura tongana e polinesiana ai Giochi Olimpici, il più grande spettacolo sportivo e umanitario al mondo» . Sembra un esibizionista, ma insegna in un orfanotrofio di Brisbane. Mostra i muscoli come si farebbe a Bondi Beach, ma ci tiene solo a far sapere che ha una laurea in ingegneria. Più diverso e inclusivo di così.